Il Covile

NL - N.o 408 (1.10.2007) Nikos Salingaros e Pietro De Marco sullo spazio sacro

Questo numero


Dei nefasti dell’architettura religiosa moderna e di come uscirne abbiamo trattato a lungo, ci ritorniamo con un testo di Pietro De Marco, ma prima vi consiglio un video che ho scoperto di recente: Métamorphose d’un Autel - Pâques 2007 (“Transformation en 15 minutes d’un autel afin de le rendre digne pour la venue de notre Seigneur jésus Christ”), dateci un’occhiata, Nikos Salingaros l’ha così commentato per noi:
“Veramente molto interessante questo video! È senza dubbio un bell’esempio della teoria di Christopher Alexander, per la quale un luogo sacro si sviluppa attraverso materiali semplici: legno, tessuto, fiori, candele... Il sacro risiede nella geometria molto particolare – la geometria vivente, biofílica.
Noto molto bene tre cose:
  1. Il luogo sacro si fa qui con materiali molto economici. La grande bugia dell’architettura necessariamente costosa, fatta di materiali costosi, serve soltanto per disorientarci e portarci lontano dalla geometria essenziale.
  2. In quale punto i preti cominciano a genuflettersi di fronte all’altare? È quando è diventato indubitabilmente sacro, non per gli articoli religiosi sul muro o sulla tavola, ma un tutto insieme coerente. Vediamo una brusca transizione quando sorge la vita.
  3. Quale precisione incredibile è necessaria per realizzare la giusta geometria! Molti piccoli cambiamenti nella simmetria ... nessuno direbbe che ciascuno di essi è necessario, ma in realtà lo sono tutti. E il prete lo vede chiaramente, assolutamente.
Dopo aver visto questo video possiamo concludere che l’essere umano ha già la capacità biologica/neurologica di creare un luogo sacro. In questo esempio, aiuta molto il fatto che siamo già in una Chiesa, ma la lezione é infatti generale.
È vero anche il contrario. Architetti contemporanei cercano la geometria la più lontana della geometria sacra. Così com’è facile creare la vita intrinseca nell’ambiente costruito, ci vogliono sforzi enormi per realizzare una costruzione che ospita la malvagità.”

Spazio sacro: Pietro De Marco Vs Mario Botta


La nota dell’architetto Botta e le suggestive indicazioni della titolatura con cui Avvenire l’ha presentata (“Ecco come progettare [gli spazi sacri] affinché parlino all’uomo del mistero divino”, Agorà, domenica 5 agosto) invitano a qualche reazione. Riprenderei un tema che mi impegna da qualche anno, ovvero: come sottrarci alla perdita di significato che da decenni colpisce la architettura contemporanea delle chiese? Scrive Mario Botta, con tutto il peso della sua autorità, che “lo spazio della chiesa deve essere facilmente leggibile e permettere al fedele attraverso un solo sguardo di orientarsi facilmente e sentirsi a proprio agio in modo da partecipare come protagonista alle celebrazioni liturgiche”.
 
Se il “solo sguardo”, che è forse un’iperbole, è affare dell’architetto, primo responsabile della leggibilità degli spazi come tali, il “sentirsi a proprio agio” e il “protagonismo” del fedele sono altra cosa o, meglio, non è nelle risorse dell’architetto concettualizzarli e risolverli (sicuramente non da solo). L’agio e l’agonismo del fedele sono infatti sotto la norma dell’evento liturgico, e si realizzano appropriatamente a condizione che siano anzitutto con-formi con quell’evento. L’agio del fedele nello spazio sacro non può essere qualcosa di genericamente psichico o psico-sociale (uno “star bene” in chiesa o alla messa); sarà piuttosto un essere “preso”, con altri uomini, plebs sancta, dall’azione liturgica e lì sapersi, in forma eminente, membro della civitas Dei viventis, scoprirsi già caelestis. Sapendo anzitutto che “protagonista” non è quella che Botta chiama “assemblea comunitaria”; protagonista è l’unico Sacerdote, Cristo. Versus Deum per Iesum Christum.
 
Evidente allora, nell’ordine di un’estetica rigorosa della rappresentazione e riattualizzazione del Mistero salvifico, come la qualità dello spazio architettonico sia solo condizione necessaria e non sufficiente. L’illusione di una quasi sufficienza del dato architettonico, per corredarlo poi di rade immagini, in maniera svogliata e disorientata, è invece quanto accade frequentemente nelle chiese nuove o “rinnovate”. Aleggia nel novecentismo della cultura religiosa diffusa, come nell’implicita estetica religiosa dell’architetto di chiese, una religio iconofobica. Tale mistica del puro volume e della nuda parete (e simili) contribuisce a legittimare un gusto insensibile all’impoverimento iconico degli spazi e degli oggetti, degli edifici e dei linguaggi sacri. Inutile insistere su quanto questa spoliazione derealizzi i saperi della Fede, àlteri senso e vissuti liturgici, si insinui nella banalizzazione dell’agire rituale delle assemblee.
 
Infatti, né la momentaneità dell’ascolto della Parola può sostituire l’epifania stabile dell’Oltre, il certo apparire della historia salutis che le pareti istoriate trasmettono ai sensi spirituali. Senza immagini del coetus sanctorum e della Gerusalemme celeste – il Salvatore, Maria, gli angeli e i beati, i nostri cari defunti - lo spazio sacro cristiano non perde genericamente di “sacralità”, perde del suo essenziale tratto (rivelativo e didattico) della nostra divino-umana cittadinanza. Anche la recita del santo Rosario lungo le pareti della chiesa è una pratica di spazio significativo, poiché le “stazioni” sono itinerario nella Gerusalemme della nostra salvezza, della gestazione della Chiesa e sanguine Christi, insomma del momento assiale della storia della Città di Dio. Faccio reverente memoria di un dialogo su questi temi, appena iniziato prima della sua morte, con mons. Cataldo Naro, partendo s’intende dal suo Monreale.
 
Non basterà, dunque, impegnare il proprio genio a disegnare una chiesa “dopo Picasso o Klee”, come Botta si esprime (posto che questo sia ancora un canone per l’artista contemporaneo). Al suo interno deve organicamente parlare, per immagini e forme eloquenti, la civitas Dei celeste, perché vi sosti non spaesata la civitas dei terrena e itinerante. Sottolineo il “non spaesata”, poiché insidioso argomento di liturgisti e pastoralisti è talora che lo spaesamento rappresenta in sé l’itinerario ed anzi la forma della fede contemporanea (è l’ideologia della videoinstallazione di Wallinger nella cripta del Duomo di Milano).
 
Quello che i critici del novecentismo architettonico chiamano il fondamentalismo geometrico ha prodotto talora edifici religiosi importanti, ma anzitutto sistemi plastici, monoliti, monumenta da fruire esteticamente, non da abitare liturgicamente o in cui far abitare il Sacro. Come stupirsi poi se un oggetto architettonico del genere, in particolare se “bello”, possa essere tenuto come un qualsiasi spazio destinato a cultori e turisti e sia godibile, prima e dopo la celebrazione, in quanto objet trouvé indifferente alla sua origine? Come stupirsene, se proprio per questa presuntuosa autosufficienza semantica è stato pensato?
 
Spenderei la tesi che a sancire la sacralità dell’edificio secondo la materia e secondo il senso, a riaprire luoghi e forme alla fiducia del credente, sono infine i segni dell’uso religioso (immagini, arredi e ogni altra res dedicata al rito), che nelle chiese ammodernate sono spesso minimizzati o rimossi. Un altare non è tale senza senza traccia della sua destinazione: un crocifisso, una tovaglia, un leggío; penso al tabernacolo di un tempo, protetto ma anzitutto segnato dal santo conopeo. Neppure una parete di chiesa è tale senza segni: altari, immagini. Esplicita semantica, che dichiara l’oggetto non disponibile ad altro se non all’Oltre che lo costituisce, alla Sua notizia, al Suo culto; è propria del sacro questa gelosa indisponibilità.
 
Si convincerà l’architetto di chiese che decisivi per la significatività di un edificio sacro sono, oltre alla struttura, necessaria ma non sufficiente, l’arredo iconico e quello funzionale, e che, nel disegnare chiese, egli dovrà ormai riannodare il dialogo plurisecolare, ma interrotto, dell’architettura con le altre arti, a cominciare dalle figurative? E si convinceranno liturgisti e pastoralisti d’essere stati corresponsabili di questa frattura, favorendo un comunitarismo spesso analfabeta di Trascendenza?
 
Pietro De Marco