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Antonello Colimberti

Un Maestro occulto del Novecento: padre Marcel Jousse


La traduzione dei brani è di Ornella Calvarese
La Storia della mia opera è quella della mia Vita
La Storia della mia Vita è quella della mia opera.
Marcel Jousse

Premessa


La figura di Marcel Jousse appare nel nostro secolo come quella di un vero e proprio Maestro occulto, la cui influenza è rimasta sotterranea, ma perciò più profonda ed efficace.

L'epigrafe, tratta dalla ampia biografia di Gabrielle Baron (1) , allieva e collaboratrice del padre gesuita francese Marcel Jousse (1886-1961), offre la chiave di lettura per la presentazione di un autore fondamentale, ma difficile quant'altri mai nella storia del Novecento.

Un elemento immediato di difficoltà è nell'avvicinarsi ad un autore che ha fatto dello Stile orale e dello Stile globale non soltanto il proprio oggetto di studio, ma anche il proprio metodo di ricerca e di insegnamento: “Poiché lo stesso Jousse era così orale nel suo modo di vita e d’insegnamento, la sua opera mal si adatta a una cultura tipografica, e per questo forse non potrà raggiungere la fama che merita” (2) . Se questo è vero, consapevole dell’inevitabile mutilazione che comporta, allo studioso attuale non resterebbe che avvicinarsi a Jousse attraverso quello Stile scritto da lui tanto relativizzato. Tuttavia, qualche opportunità in più è offerta dallo stesso Jousse. Infatti, egli non si è limitato a ricostruire le fondamenta di uno Stile orale, ma ha nel contempo, almeno in una fase della sua vita, sperimentato nuove forme di scrittura. Anzi, da questo punto di vista, il suo cammino è stato analogo e parallelo a quello di un altro importante antropologo del nostro secolo, Gregory Bateson, che nei primi anni della sua ricerca ha utilizzato forme di rappresentazione scritta insolite e creative, per dedicarsi in seguito puramente alle forme della comunicazione orale.

Jousse, insieme a Gregory Bateson (3) e Walter Benjamin costituisce a buon diritto il precursore di quella svolta nelle forme di rappresentazione delle scienze umane, antropologiche innanzitutto, che costituisce il portato più critico e creativo dei nostri tempi. Tale svolta, che ha alle spalle anche l’autorevolezza di studiosi come Michail Bachtin rappresenta la più radicale messa in questione del modello tradizionale di scrittura monologica e autoritaria, centrata sulla nozione di “autore” (4) e su una rappresentazione frontale, piatta, uniforme, euclidea, a favore di modelli polifonici e multiprospettici. Il conflitto odierno, dentro e fuori le istituzioni culturali, si gioca su queste scelte di grande portata, anche politica, dove i modi diversi di intendere la “scientificità” si misurano e si scontrano. La ripresa d’interesse per i su citati precursori, dopo l’attacco e la momentanea sconfitta storica che subirono ad opera delle istituzioni accademiche del tempo, è legata proprio a questa questione di fondo: l’inclusione dell’avanguardia e della sperimentazione non solo ad oggetto ma a metodo e contenuto delle scienze umane.
  1. Gabrielle Baron, Marcel Jousse, introduction à sa vie et à son œuvre, Castermann, Tournai 1965, p. 19
  2. Walter. J. Ong, La presenza della parola, Il Mulino, Bologna 1970, p. 377.
  3. Su questo aspetto di Gregory Bateson cfr. George E. Marcus, Una opportuna rilettura di ‘Naven’: Gregory Bateson saggista oracolare, Postfazione a Gregory Bateson, Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino 1988. Sulla scia di Marcus si è posto anche Massimo Canevacci nel capitolo intitolato Le trame della rappresentazione, contenuto nel suo Antropologia della comunicazione visuale, Costa & Nolan, Genova 1995, p. 56 e segg.
  4. Alla critica della nozione di “autore” dedica splendide pagine anche Michel Foucault. Valga il seguente esempio. “Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque fosse il loro statuto, la loro forma, il loro valore o il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato di un mormorio” (Michael Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, p. 21)

Nascita della recherche


È possibile ricostruire le più lontane origini del pensiero del nostro autore, in quanto si possiede una traccia autobiografica, estratta da un corso tenuto da Jousse alla Sorbonne il primo febbraio del 1934, intitolato L’invention scientifique e pubblicato nell’Introduction di Gabrielle Baron alla nuova edizione dello Style oral 1 . In questo corso Jousse mostra le diverse fasi di avvicinamento a quella sintesi costituita dall’Antropologia del Gesto e del Mimismo, derivata dallo studio dello “Stile orale”.

Prima infanzia.

Alla fase della prima infanzia appartengono innanzitutto le cantilene che Jousse apprende dalla madre, dotata di una memoria straordinaria. Quelle prime sensazioni di ritmo bilanciato lo formeranno prima della nascita della coscienza e lo segneranno poi per tutta la vita. Intanto la costante inclinazione scenica emerge già nel descrivere questo primordiale momento: “Una frase che non si dondola non solo disturba la respirazione come sosteneva Flaubert, ma disturba l’intero organismo. La grande forza di convinzione di un uomo risiede nella sua capacità di abbracciare il proprio uditorio e cullarlo come una madre culla il suo bambino. Siamo sostanzialmente esseri cullati e dondolanti” 2 .

La seconda esperienza fondamentale della prima infanzia è costituita dalle veglie contadine, cui lo conduce la madre intorno ai cinque o sei anni, nei pressi di Beaumont-sur-Sarthe, suo villaggio natale. Già formato dalle cantilene materne, viene subito catturato da quelle specie di melopee salmodiate dai contadini illetterati che si radunavano. Quello che lo colpisce è soprattutto l’esigenza di esattezza della tradizione, ma anche la spaventosa quantità dei contenuti appresi e conservati mediante la mnemotecnica. Il contatto con un ambiente di illetterati dischiude a Jousse un tipo di sapere che non dimenticherà più: “Gli analfabeti possono essere straordinariamente intelligenti. È presso di loro che è nato il mio gusto per l’osservazione della realtà. Quando ero molto piccolo andavo a passeggio con quei contadini che ho tanto amato, e che vado a trovare per conservare il mio metodo sperimentale. Mi meravigliavo allora del loro sapere pratico. Non sapevano sicuramente declinare: rosa, la rosa, ma conoscevano le diverse specie di grano, d’orzo, d’avena, conoscevano le diverse specie di erba buona e cattiva. Avevano per indicarle bei nomi, quei nomi che trasformiamo in poemi nelle nostre civiltà libresche. Tutto questo vive in seno alla terra, nella sua linfa, nel vento e sotto il cielo. Questo costituisce la vera pedagogia dell’uomo vivo e concreto, a contatto con le cose” 3 .

L’ultima esperienza fondamentale della prima infanzia è quella dei giochi infantili alla scuola materna, dai quali deriverà la nozione di “rigioco” 4 con tutto il corpo: “Una cosa allora mi ha molto colpito, vedere i bambini giocare a tutto. Ho ancora nei miei muscoli tutti quei giochi infantili. Questo problema mi ossessionava, perché i bambini giocano a tutto ciò che hanno ricevuto dall’ambiente familiare con un successo così sorprendente? Ho visto solo questo: bambini che tentano di sfuggire a tutte le nostre costrizioni per giocare a tutte le cose” 5 .

Primi studi

In seguito, comincia per Jousse l’epoca dei primi studi, che lo introducono brutalmente ad un nuovo tipo di sapere: quello dell’alfabetismo. Alla scuola elementare, ciò che lo colpisce è innanzitutto la discrepanza fra la deprivazione sensoriale (silenzio, immobilità), che caratterizza l’apprendimento all’interno dell’istituzione scolastica, e la sovrastimolazione sensoriale (rumore, movimento) che istintivamente elaborano i fanciulli come propria strategia d’apprendimento 6 . Ma è un dettaglio ad intrigarlo ancor di più: il soufflage, procedimento mediante il quale un compagno di scuola suggerisce la parola iniziale a chi non ricorda bene una proposizione o un verso. È lo stesso procedimento che Jousse scoprirà in alcuni ambienti etnici, a cominciare da quello semitico, come legge di concatenamento delle frasi: “Questo piccolo ‘soffio’ è carico di un’intera dottrina. Il fatto è che la proposizione forma una totalità. In quel soffio risiede l’origine della sensazione del ‘gesto proposizionale’ che nasceva in me. Non è la parola, ma la proposizione a costituire l’unità di misura. Pertanto, una volta suggerito l’inizio si procede automaticamente fino alla fine” 7 . Oltre al soufflage, l’altra scoperta, o meglio riscoperta importante che Jousse compie nella scuola elementare è quella del balancement, procedimento mediante il quale il bambino, per aiutarsi nella ripetizione di una proposizione o di un verso, si dondola. Anche questo procedimento sarà ritrovato in vari ambienti etnici: “È curioso. Osservatelo recitare. Si dondola. Solo il bambino? Ma osservate dunque gli Ebrei presso le vecchie mura di Gerusalemme che dondolano ancora i loro famosi Lamenti! Andate a veder recitare il Corano, lo troverete dondolato e salmodiato dappertutto. Osservate quelli che parlano in pubblico. Di solito diciamo che ‘fanno l’orso’. Di fatto scolpiscono le proprie frasi tentando di dondolare i muscoli” 8 .

Il nuovo e decisivo evento, che decide una volta per tutte la vocazione di Jousse, si compie fuori delle aule scolastiche: il colpo di fulmine per una mummia egiziana! Un giorno la madre lo conduce con sé al museo della Prefettura di Mans a vedere la mummia di cui aveva parlato il maestro di scuola. Dinanzi al corpo immobile e ben conservato della sacerdotessa egiziana il Nostro ha un’illuminazione, così descritta da lui stesso: “Sono rimasto lì pietrificato, forse per due ore, davanti a quel piccolo viso morto, quel piccolo corpo rinsecchito con le mani incrociate sul petto. M’ha fatto un’impressione straordinaria perché c’erano tutt’intorno piccoli disegni immobili che formavano una specie di piccola processione. Allora mi è venuta l’idea che mi ha ossessionato e che continuo a perseguire: tutti quei piccoli disegni dipinti intorno al sarcofago erano stati forse vivi, come era stata viva la sacerdotessa che giaceva lì imbalsamata? Chissà se quei ‘caratteri’ che stavano lì immobili erano stati vivi, come i nostri giochi infantili? Intorno a quella donna rigida e imbalsamata non c’era forse un gioco di uomini che facevano gesti come quelli dei bambini?”
“Sono stato ossessionato da questo paragone: avevamo a che fare con dei segni morti che erano stati vivi, come avevamo a che fare con una sacerdotessa morta che era stata viva. Ne sono stato del tutto ossessionato”
9 .

Studi classici

Conclusi i primi studi, si apre per Jousse la fase degli studi classici, durante i quali la prima esperienza importante gli è offerta dai professori di greco che lo iniziano allo studio della lingua mediante l’apprendimento delle radici linguistiche. L’intuizione del Nostro è immediata. “A un certo punto mi sono detto: ‘È strano, quelle radici greche sono sempre una specie di gesti vocali. Avete un suono? Ebbene esso ha sempre un senso. Vuole dire: prendere, grattare, spingere, ecc., esattamente come i piccoli gesti o disegni che vedevo intorno alla mia mummia… Non sarà possibile fare per le parole, il paragone che ho fatto per quei piccoli disegni?” 10 .

La scoperta del gesto sotteso alle radici è decisiva per la nascita della sua recherche: “Ciò che si cercava in me, senza che fosse realmente elaborato, era il grande principio che avrei trovato più tardi: il Linguaggio è anzitutto Mimaggio. È mimodramma quando si trova allo stato di gesto vivente, è mimogramma quando è proiettato e inciso su una parete, ed è fonogramma quando lo scriviamo pronunciandolo”
“In me sorgeva, per così dire, una specie di collegamento tra due idee, ma senza di me, a mia insaputa, e mi avrebbe presto dato i primi due stadi dell’espressione che sto studiando attualmente alla Scuola di Antropologia: lo stadio dello Stile corporale-manuale, gesto espressivo vivente o mimodramma che, proiettato in ombre cinesi mimiche, una volta stabilizzato su una parete forma dei mimogrammi. E, successivamente, il passaggio di questi gesti sotto forma di radici orali, laringo-boccali, che si svilupperanno fino a diventare un mezzo di comunicazione, che darà lo stadio dello Stile orale.”

“Poi vedremo tutto questo concretismo terminare con una sorta di algebrizzazione e avremo lo Stile scritto
11 .

Intuiti gli stadi dell’espressione (Stile corporeo-manuale, Stile orale, Stile scritto), si vanno precisando le loro leggi antropologiche del Bilateralismo, del Mimismo, e del Formulismo. La prima (legge del Bilateralismo) trova conferma nell’apprendimento a memoria dei testi omerici, dove Jousse rinviene uno schema ritmico fatto di due dondolamenti (balancements), gli stessi che troverà nello Stile orale biblico e persino nei grandi retori greci, che non avrebbero fatto che elaborare, sebbene in un modo un po’ troppo libresco, il grande dondolamento congenito.

Nella stessa epoca il Nostro ha l’occasione di conoscere, spinto dall’amore per la mummia egiziana, la grammatica di Champollion, dove trova un’espressione per lui estremamente rivelatrice: “carattere mimico”, termine che stava là come in attesa di quel sistema esplicativo che più tardi sarebbe stato la “legge del Mimismo”.

Infine, Jousse, mosso dal desiderio di apprendere le parole stesse pronunciate da Gesù, viene a conoscenza dei Targum, ossia delle traduzioni della Tôrâh ebraica insegnata e appresa oralmente nella lingua popolare, l’aramaico 12 .

L’apprendimento a memoria, dopo Omero, anche dei Targum, gli rivela ancora una volta, oltre al dondolamento, la preminenza della proposizione sulla parola, anzi del “gesto proposizionale”, termine che più tardi sarebbe stato al centro di quel sistema esplicativo chiamato la “legge del Formulismo”: “Quella sensazione di frase stereotipata che più tardi avrei chiamato ‘cliché’ o ‘formula’, l’avevo notata anche sulle labbra di mia madre. Nelle cantilene della Sarthe o nelle parabole evangeliche che mi cantava, ritrovavo spesso le stesse formule.”
“Formata da sua nonna analfabeta, mia madre conosceva il vangelo a memoria. È ancora una volta lei che ritrovate nelle mie ricerche. Da bambino ho provato una grande curiosità per Gesù di Nazareth. Quello che mi attirava in lui era l’insegnamento che aveva portato e che mia madre mi cantava. Ho ancora la sua cara voce, non nelle orecchie, ma nella bocca, nella gola recitante...”
“Tutte quelle declamazioni mi hanno fatto sentire nella mia stessa bocca recitante, che ci trovavamo di fronte a qualcosa di analogo alle composizioni olofrastiche di Omero, e che tutti coloro che recitavano l’Antico e il Nuovo Testamento si esprimevano in ‘formule’ etniche molto somiglianti alle declamazioni delle nonne di Sarthe. E così si è elaborato in me quello che poi è diventato lo stile orale
13 .

A questo punto, i materiali di elaborazione ci sono tutti, al completo. Non resta più che stabilire il piano, dividendo in serie organiche il lavoro di tutta una vita, che non ha al suo centro che una sola idea: il Mimismo e la sua algebrizzazione (algébrisation). Il grande principio tanto cercato è stato finalmente trovato, e le esperienze formative di Jousse trovano una loro precisa collocazione: “Allora, tra i 15 e i 20 anni, lentamente si sono elaborate le tre fasi dell’espressione umana: cioè lo Stile corporale-manuale, lo Stile orale, lo Stile scritto, con in seguito l’Algebra.”
“È a partire da questi tre punti che ho catalogato nello Stile corporale-manuale i giochi infantili, i ‘caratteri mimici’ della mia piccola mummia, i mimodrammi e i mimogrammi che allora non indicavo in quei termini poiché ho forgiato il mio proprio vocabolario lentamente. Nello Stile orale trovavano posto tutte le declamazioni di mia madre, le parabole che melodiava dondolandosi, le cantilene delle nonne e dei contadini di Sarthe, i recitativi di Omero, ecc. Nello Stile scritto erano classificate le produzioni letterarie dei nostri grandi scrittori secondo le diverse epoche. Quindi l’Algebra e tutto ciò che, successivamente, avrei fatto dal punto di vista meccanico in quanto ufficiale d’artiglieria all’epoca in cui ero attratto dagli studi di astronomia, poiché anche la matematica esercitava su di me il suo fascino”
14 .

Stabilito il piano di ricerca, incomincia il periodo della verifica attraverso letture e studi specializzati: “Ho scelto degli studi di fisiologia che mi avrebbero spiegato le leggi di quel Mimismo che avevo osservato nel bambino e nell’adulto, e di psicologia, che mi avrebbero fornito una sorta di elaborazione intellettuale di quel Mimismo. È così che ho scoperto la Psychologie de la Conduite de Pierre Janet e il Schéme moteur di Bergson. Evidentemente è a questi due uomini che devo di più, per quanto riguarda la verifica. L'etnografia con Marcel Mauss mi avrebbe dato tutto ciò che attiene al montaggio delle diverse tappe dell'espressione gestuale e orale. In me tutto si ammucchiava alla rinfusa, ma secondo il mio piano tripartito e ogni cosa faceva luce sull’altra” 15 .

Le letture e i corsi seguiti gli permettono di comprendere meglio i resoconti degli ufficiali coloniali e dei missionari di tutte le parti del mondo, che avevano riportato fatti di Stile corporale-manuale e di Stile orale senza conoscerne le leggi. Gli studi effettuati, inoltre, gli consentono di comprendere meglio quanto da lui stesso osservato nel 1917, quando, inviato in missione militare negli Stati Uniti, era potuto penetrare in alcune riserve di quegli Indiani dei quali si perseguiva sistematicamente la scomparsa e che guardavano ai loro dominatori bianchi con fredda ironia. L’osservazione partecipante di questo ambiente etnico gli suggerirà riflessioni di ampia portata: “È così che ho potuto constatare la corrispondenza viva che esiste tra i gesti mimici significativi dei Sumeri, degli antichi Egizi e degli Indiani, e persino dei Cinesi di oggi i quali, per fortuna, nei loro ‘caratteri’ e malgrado le trasformazioni subite attraverso le varie epoche, hanno conservato al massimo il disegno della cosa mimata” 16 .

Qui termina il racconto dell’Autore. Una recente biografia non ha esitato ad accostare la sua recherche con quella più nota di Marcel Proust, rilevandone profonde assonanze: “Le esperienze di Marcel Proust, consegnate alla sua Recherche du Temps perdu, sono abbastanza vicine alle prese di coscienza di Marcel Jousse. Per l’uno come per l’altro, noi assorbiamo il mondo circostante con tutti i nostri sensi: le forme, i volumi, la luce e la sua azione trasformatrice, ma anche gli odori e il sapore del cibo. Siamo un po’ alla volta come pervasi da tutti gli appigli della realtà che ci circonda; appigli che sono sepolti nel profondo del nostro essere e che la nostra volontà non può sempre liberare a suo piacimento. Il racconto della piccola madeleine che, nel suo contatto col palato, fece trasalire l’autore e risveglio un ricordo lontano, ci prova che il corpo assorbe tutto ciò che lo circonda senza che ne abbiamo coscienza” 17 .

Compimento della verifica del piano, l’opera Le Style oral rythmique et mnémotecnique chez les verbo-moteurs appare nel 1925 negli Archives de Philosophie, pubblicati da Beauchesne. Rapidamente esaurito, resta nell’opera complessiva di Marcel Jousse il primo e unico volume organico pubblicato 18 , nonché il fondamento stesso della sua carriera scientifica. Parafrasando quanto è stato detto a proposito del Dramma barocco di Walter Benjamin 19 , scritto negli stessi anni, possiamo dire che l’unità dello Style Oral è data dal fatto che ha per oggetto, per metodo e per contenuto l’Antropologia del Gesto o del Mimismo.

L’oggetto.

Lo Stile orale è esso stesso un esempio cospicuo di Antropologia del Gesto o del Mimismo, da cui Jousse trae le leggi e il significato di questa scienza. Il termine “Stile orale” non esisteva neppure. Si parlava sì all’epoca di “tradizione orale” 20 , ma le “tecniche del corpo” 21 della trasmissione non erano state ancora approfondite. La portata dell’innovazione è così descritta da Baron: “Il titolo stesso del suo libro é già una vittoria! Rompe radicalmente con il termine passe-partout e vago di ‘tradizione orale’ per imporre lo Stile orale ritmico e mnemotecnico. Chi dice ‘stile’ dice espressione obbediente a delle leggi. Queste leggi stilistiche bisognava rilevarle all’interno di numerosi ambienti etnici che non usano ancora correntemente o non usano affatto la scrittura, e farle accettare in un ambiente chiuso a tutto ciò che non sia scritto e per il quale tutto il resto è ‘primitivo’, ‘prelogico’, ‘selvaggio’” 22 .

L’originalità d’approccio di Jousse sarà rilevata da Roman Jakobson e Petr Bogatyrev con parole fortemente elogiative: “Marcel Jousse, che ha indagato con finezza lo stile ritmico orale, giudica la diversità con la letteratura così importante da riservare i concetti di ‘verso’ e ‘poesia’ esclusivamente alla letteratura, mentre per la creazione orale usa le espressioni corrispondenti di ‘schema ritmico e di ‘stile orale’, per evitare che si attribuiscano a quei termini i contenuti letterari consueti [...] “Qui si trova chiaramente definito il rapporto tra tradizione e improvvisazione, fra langue e parole, nella poesia orale” 23 .

Tuttavia, questa opposizione fondamentale tra opera orale e opera letteraria nei termini dell’opposizione linguistica tra Langue e Parole, accettata anche da Agamben 24 , è respinta con decisione da Lord: “Bogatyrev e Jakobson applicano al folclore in modo molto interessante la distinzione posta da Saussure ad un livello speculativo tra lingua e parola. Potrebbe darsi che nel caso della performance epico-orale abbiamo qualcosa che non è né Lingua né Parola, ma una terza forma, come Lévi-Strauss dichiarò nel caso del mito. O di nuovo con Lévi-Strauss potremmo chiederci se non abbiamo qualcosa che è sia Lingua che Parola allo stesso tempo sotto diversi aspetti, arrivando così ad una terza forma di comunicazione, o di relazione, caratteristica dell’arte della narrazione orale” 25 .

Il fatto più rilevante è che, se l’epica e lo stile orali appartengono come il mito alla dimensione intermedia fra lingua e parola, mentre l’antropologia levistraussiana appare come “una macchina che trasforma il linguaggio umano in lingua prebabelica, la storia in natura 26 , l’antropologia joussiana appare piuttosto assimilabile all’infanzia, cioè “alla macchina contraria, che trasforma la pura lingua prebabelica in discorso umano, la natura in storia 27 .

Il metodo.

Con Le Style oral Jousse realizza il progetto benjaminiano di un’opera composta di quasi sole citazioni 28 , pur consapevole dei limiti di una erudizione che si contenta di una cultura puramente libresca: “ Un uomo che fa un libro con dei libri non porta nulla di nuovo e lo dichiaro tanto più volentieri in quanto il mio primo libro, Le Style oral, è interamente composto da citazioni” 29 .

Seguiamo l’autore stesso nella descrizione del suo metodo di composizione: “Ammettendo di poter rappresentare la realtà sotto forma di un cerchio, avevo, a forza d’osservare, ‘intussuscepzionato’ la realtà in me. A partire da quel momento, sono andato nei libri, per vedere ciò che altri ricercatori avevano visto sulla questione. Ho letto circa 5000 opere. Ne ho trattenute 500 ed ho scelto in quei 500 volumi le frasi che sembrano meglio aderire alla realtà, per lo meno alla realtà così come l'avevo ricevuta nei miei mimemi. Così, ho preso nel tale libro la tale frase che coincideva con la mia realtà, ho preso tale altra con lo stesso criterio. E un gran numero di punti del mio cerchio, certo non tutti, sono stati toccati dalle frasi degli autori che avevo letto.”
“Direte che ho plagiato gli altri e fatto un libro con dei libri? Nient’affatto. Eppure è un libro quasi interamente fatto di citazioni. Ma credete forse che se non vi fosse stata realtà in me, il mio libro avrebbe avuto una tale ripercussione? Avrebbe fatto ciò che fanno molti libri: silenzio! Alcuni teologi vi si sono ingannati. ‘Ma non vi sono altro che citazioni lì dentro!’ E tuttavia il mio Style oral impedisce loro di dormire, perché è ormai impossibile pensare il Rabbi Ieshoua di Galilea come lo si pensava prima, perché la realtà che avevo in me ha giocato: la realtà e il suo collegamento logico”
30 . Dunque c’è un uso particolare delle citazioni: “Al punto che ho fatto il mio Style oral solo con citazioni altrui. Ho potuto così dire il mio pensiero con citazioni di persone le quali, per lo più, pensavano esattamente il contrario di me...” 31 . Inoltre, le citazioni vengono tradotte in una nuova terminologia joussiana, attraverso l’uso della parentesi quadra: “La presente opera avvicinerà semplicemente i testi di specialisti ma consentendo di introdurvi, fra parentesi quadre [ ], una terminologia unica, indispensabile alla chiarezza dell’insieme, senza per questo tradire il pensiero degli autori” 32 .

Alcuni anni dopo sarà lo stesso Jousse a dare una definizione preziosa del suo lavoro: “tesi metodologica e graficamente formulare di un antropologo del gesto” 33 . Le parole di Gabrielle Baron offrono a loro volta un ulteriore chiarimento: "Nel metodo di composizione di quest’opera Jousse perseguiva un altro scopo. Far percepire sperimentalmente che è possibile, attraverso una manipolazione personale di citazioni -diciamo pure di 'formule'- di autori differenti, portare del nuovo. Nei suoi lavori successivi <...> Marcel Jousse metterà in rilievo quel fenomeno proprio ai Compositori di Stile orale, quello che chiamerà la ‘legge del Formulismo’ che segna un passo avanti illuminante nello studio della composizione dei Vangeli. Si capisce che, diventato prete e gesuita, tale questione gli stava particolarmente a cuore” 34 .

Dalle parole di Gabrielle Baron si evince che il “montaggio letterario”, per usare un’espressione benjaminiana, è per Jousse uno strumento per utilizzare la scrittura secondo le leggi dello Stile orale, anziché quelle dello Stile scritto. Così facendo, Jousse anticipa le odierne correnti post-moderne dell’antropologia americana, che sperimentano nuove forme di rappresentazione etnografica: “L’etnografia post-moderna privilegia il ‘discorso’ al ‘testo’, dunque il dialogo al monologo, ed enfatizza la natura cooperativa e collaborativa della situazione etnografica in contrapposizione all’ideologia dell’osservatore trascendentale. Infatti, rifiuta l’ideologia dell’osservatore-osservato’, perché non c’è niente da osservare e nessuno che osserva. C’è invece la reciproca e dialogica produzione di un discorso, di un tipo di storia. Possiamo meglio comprendere il contesto etnografico come una collettiva invenzione di storie che in una delle sue forme ideali, porterebbe a un testo polifonico, in cui nessuno dei partecipanti abbia l’ultima parola sotto forma di contestualizzione, o sintesi globale, un discorso sul discorso. Potrebbe essere anche solo il dialogo, forse i detti paratattici di una circostanza condivisa, come nei vangeli sinottici, o forse una sequenza di detti separati lungo un tema comune, o perfino un tessuto di detti a contrappunto, o, infine, un tema e le sue variazioni [...] Il modello dell’etnografia post-moderna quindi non è il giornale, ma quell’etnografia originaria che è la Bibbia” 35 .

Se questo è vero, si potrebbe anche arrivare a sostenere che il volume Le Style oral realizza una vera e propria “imitazione della Bibbia”, così come la pedagogia joussiana realizza una vera e propria “imitazione di Cristo” 36 .

Il contenuto.

Il libro, frutto di vent’anni di ricerche, non è che la proposta dell’Antropologia del Gesto e del Mimismo sotto le apparenze dello Stile orale, come ben chiarisce l’autore stesso: “Ho iniziato le mie pubblicazioni con lo Style oral nel 1925 poiché a quell’epoca le ricerche scientifiche erano orientate alla problematica del linguaggio. Sebbene sia considerato oggi colui che ha scoperto lo Stile orale, più esattamente ho scoperto l’Antropologia del gesto, che in altri termini sarebbe l’Antropologia del Mimismo che deve servire da fattore comune all’intera mia opera. Lo Stile orale, con i suoi procedimenti mnemotecnici entra in gioco solo dopo l’appropriazione totale d’informazione da parte dell’uomo che la rigioca attraverso il suo intero essere mimico” 37 .

La combinazione dell’oggetto con il metodo e con il contenuto producono un effetto straordinario sugli ambienti culturali dell’epoca. Valgano due esempi illustri.

Il primo è la testimonianza del filosofo Maurice Blondel: “Per quanto riguarda Marcel Jousse, amo la forza del suo metodo personale che gli consente di trovare ovunque il proprio tornaconto e di mostrare che i risultati acquisiti e organizzati da lui erano già virtualmente ottenuti da altri che enunciavano fatti e verità frammentari senza sapere abbastanza di quale verità complessiva si trattasse... Oserei aggiungere che a mio parere Marcel Jousse ha persino più ragione di quello che pensa lui stesso...”
“I fatti raccolti e raggruppati da Marcel Jousse sono molto illuminanti, grazie alla luce che si rimandano l’un l’altro nel proprio piano. Ma con la loro stessa luce toccano molti più problemi di quanto appaia a prima vista e contribuiscono a porne di nuovi pur precisando quelli vecchi”
38 .

Il secondo esempio sono le parole del critico letterario Fréderic Lefèvre: “Ciò che colpisce, quando si entra in comunione con il pensiero di Jousse, è l’agile maestria con la quale egli gioca attraverso tante tecniche multiple e ardue che finora si erano incontrate solo suddivise tra vari specialisti.”
“Fisiologia, neurologia, ritmologia, psicologia, fonetica, linguistica, etnologia ecc., tutte queste scienze apporteranno, con i loro metodi rispettivi e i loro strumenti più o meno perfezionati (cinematografo, apparecchiature di registrazione) porteranno all’osservatore esigente fatti rigorosamente spogliati da ogni equazione personale”
39 .

Antonello Colimberti




Note



[1] Marcel Jousse, L’invention scientifique, in Gabrielle Baron, Introduction a Marcel Jousse, Le Style oral- rithmique et mnemotechnique chez les verbo-moteurs, Nouvelle Édition, Fondation Marcel Jousse, Paris 1981, pp. 5-24.

[2] Ibidem, p. 6-7.

[3] Ibidem, p. 9. Va segnalato che l’amore di Jousse per la cultura contadina non assume mai aspetti ideologici, come ben sottolinea l’antropologo francese Maurice Houis: “Bisogna dire qui che Marcel Jousse è in origine un contadino. Questo fatto è essenziale nella sua biografia. Bisogna assumerlo come tale senza cadere nel rischio di affermare la ruralità come una messa sotto conserva di un tradizionalismo politico. Un chiosatore di Jousse potrebbe cadervi, ma sarebbe un recupero infelice.” (Maurice Houis, Préface a Marcel Jousse Le Parlant, la Parole et le Souffle, Gallimard, Paris 1978, p. 13). Forse bisognerebbe intendere il termine “contadino” come “nativo”, anche alla luce delle seguenti osservazioni dello stesso Jousse: “Abbiamo dato alla parola ‘contadino’ un senso universale. Vale a dire che abbiamo installato il nostro laboratorio presso tutti i popoli realmente in-formati (modellati) dal proprio paese, e che prendono realmente coscienza di sé e del loro valore intrinseco ed inalienabile. Essere contadino vuol dire essere in-formato dal proprio paese. Nella sua accezione forte, il contadino è il paese rigiocato dall’essere intero, che mima, interagisce e bilateralizza.” (Marcel Jousse, L’anthropologie du geste, Gallimard, Paris 1974, nota 1, p. 167).

[4] Sulla nozione di “rigioco” cfr. il terzo paragrafo della Parte seconda del presente studio.

[5] Marcel Jousse, L’invention scientifique, cit,p.10.

[6] Non è privo di interesse notare come le due strategie di apprendimento ricalchino l’opposizione fra “estasi “ e “trance”, così riassunta dall’etnomusicologo francese Gilbert Rougert: Estasi e trance si oppongono per il fatto che, mentre la trance è sempre legata ad una sovrastimolazione sensoriale più o meno accentuata,- rumori, musica, odori, agitazione-, l’estasi, viceversa, è legata per lo più a una privazione sensoriale- silenzio, digiuno, oscurità.” (Gilbert Rouget, Musica e trance. I rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione, Einaudi, Torino 1986, p. 22). Ma sul “corpo come dispositivo pedagogico” cfr. l’ottimo studio sulle implicazioni pedagogiche del pensiero di Michel Foucault di Alessandro Mariani, Foucault: per una genealogia dell’educazione. Modello teorico e dispositivi di governo, Liguori, Napoli 2000. Di tale studio dovrà tenere conto ogni ulteriore approfondimento in Italia delle implicazioni pedagogiche di Marcel Jousse, dopo il tentativo pionieristico di Arianna. Robiglio, In principio era il gesto. Introduzione alla pedagogia di Marcel Jousse, Seu, Pisa 2000.

[7] Marcel Jousse, L’invention scientifique, cit, p.12.

[8] Ibidem, p. 12.

[9] Ibidem, p. 13. La fascinazione per l’Egitto si estenderà in seguito dalla mummia al geroglifico: “I geroglifici che, da giovani collegiali in vacanze osservavamo con tanto rispetto sull’obelisco di place de la Concorde, se trouvano così ravvicinati alle radici greche che imparavamo meccanicamente nei nostri manuali”. (Marcel Jousse, L’anthropologie du geste, cit. p. 124). Difficile non comparare questa fascinazione egizia al tema del “geroglifico vivente”, presente in Antonin Artaud, su cui cfr., in particolare, Monique Borie, Antonin Artaud. Il teatro e il ritorno alle origini, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1994, pp. 245 e segg. Più in generale, sull’”effetto egizio” nella cultura contemporanea cfr. Mario Perniola, Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte, Costa e Nolan, Genova 1990.

[10] Ibidem, p. 14.

[11] Ibidem, p. 14.

[12] A proposito dei Targum Jousse preferisce parlare di decalque, anziché di traduction: “Tra la ‘traduzione’ e la ‘decalcomania’, vi è un abisso. In una versione o in una traduzione così come la s’intende solitamente, abbiamo tanti testi quanti traduttori. Provate quindi a rifare Tacito o Pindaro con le traduzioni di studenti! Se non conoscete il testo originale non otterrete altro che fantasie. Mentre col procedimento della decalcomania, avete una parola su una frase che non potete cambiare perché è formulare e tradizionale. E poiché si ripete spesso, i decalcomani, i metourguemâns hanno disposto molto presto di un procedimento stereotipato, che d’altra parte obbediva ad una tradizione rigorosa. Eramo incastrati dal meccanismo del formulismo che funzionava per proposizioni con termini imposti. Al punto che le formule del Targum aramaico ricalcano, per quanto possibile, le formule ebraiche. Non quindi traduzione letterale con l’aiuto di un dizionario, con il rischio di cadere nell’aleatorio, ma decalcomania di formule proposizionali etniche. È l’intero blocco nel suo complesso che bisogna cogliere e tradurre.” (Marcel Jousse, Le Parlant, la Parole et le Souffle, cit, p.154, nota 5). Sui Targum cfr. Martin Mcnamara, I targum e il nuovo testamento, Edizioni Dehoniane, Bologna 1978.

[13] Marcel Jousse, L’invention scientifique, cit, p.16-17.

[14] Ibidem, p. 17-18. Il problema del passaggio dal gesto mimico all’algebra lo spingerà, all’età di vent’anni, a progettare una pubblicazione intitolata Du concrétisme à l’algébrisme.

[15] Ibidem, p. 18. Nel testo è curiosamente assente ogni riferimento al terzo grande maestro di quegli anni, l’abate Jean Pierre Rousselot, al quale è peraltro dedicato il volume stesso, con le parole: “Dedico piamente questo abbozzo di lavoro alla memoria del mio maestro di fonetica sperimentale al Collège de France, il signor abate Jean-Pierre Rousselot, che l’ aveva incoraggiato” (La dedica è curiosamente assente nella nuova edizione del volume).

[16] Ibidem, p. 19.

[17] Violette Lebouteux-Rudelle, Marcel Jousse ou la simplicité retrouvée, Pierre Tequi, Paris 1997, pp. 38-39. Il confronto Jousse - Proust, proposto en passant dall’autore, meriterebbe ben altra considerazione alla luce dei comuni rapporti con i maestri della psicologia sperimentale parigina del tempo. Per questo aspetto di Proust cfr. Giovanni Macchia, Malattia e creazione, in Idem, L’angelo della notte, Rizzoli, Milano 1979, II capitolo, pp. 71-133.

[18] Un discorso a parte richiede il volume Les Rabbis d’Israël, genre de la maxime, su cui cfr. il primo paragrafo della Parte seconda del presente studio.

[19] Cfr. Renato Solmi su Il dramma barocco tedesco di Benjamin, uscito nel 1928, ma abbozzato e composto nel 1925: “La sua unità è data dal fatto che esso ha per oggetto, per metodo e per contenuto l’allegoria. Per oggetto, in quanto il dramma barocco è esso stesso un esempio cospicuo di arte allegorica, da cui Benjamin trae le leggi e il significato di questa forma. Per metodo, poiché la tecnica filosofica di Benjamin è essa stessa eminentemente allegorica. Per contenuto, infine, poiché l’opera stessa è (come ha visto Lukàcs) un’allegoria dell’arte moderna (in termini lukàcsiani: dell’avanguardia) sotto la maschera e le apparenze del dramma barocco.” (Renato Solmi, Introduzione a Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, 1982, p. XIV)

[20] Sulla categoria di “tradizione orale” cfr. Jan Vansina, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Officina Edizioni, Roma 1976, e Louis-Jean Calvet, La tradition orale, Presses Universitaire de France, Paris 1997. Per una rilettura della nozione di “tradizione orale” alla luce di quella joussiana di “stile orale” cfr. Jean T. Yilbuudo Élaboration d'une Tradition orale: approche littéraire de la tradition orale moaaga et perspectives kerygmatiques, Séminaire de Koumi (Burkina-Faso), 1971.

[21] Sulla nozione di “tecnica del corpo” cfr. il saggio di Marcel Mauss (uno dei maestri di Jousse), intitolato Le tecniche del corpo, e contenuto nel suo Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1991, pp. 383-409. Sull’utilizzo della nozione in ambito teatrale cfr. Ugo Volli, voce Tecniche del corpo, in (a cura di) Nicola Savarese, Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, la casa Usher, Firenze 1983, pp .204-214. (Il saggio non appare nelle successive e modificate edizione dell’opera)

[22] Gabrielle Baron, Marcel Jousse, Introduction à sa vie et à son œuvre, Castermann, Tournai 1965, p. 85-86.

[23] Petr Bogatyrev -Roman Jakobson, Il folclore come forma di creazione autonoma, in “Strumenti critici”, giugno 1967, p. 234-235.

[24] Cfr. Giorgio Agamben, L’origine e l’oblio. Su Victor Segalen, in AA.VV. Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria (a cura di Ferruccio Masini e Giancarlo Schiavoni), Sellerio, Palermo 1983, pp. 154-163.

[25] Albert B. Lord, The singer of tales, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1960, pp. 279-280.

[26] Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit, p. 60.

[27] Ibidem, p. 60. Sul “mito di Babele” cfr. Paul Zumthor, Babele, Il Mulino, Bologna 1998.

[28] Cfr. le parole di Adorno, riportate da Renato Solmi: “Dell’opera incompiuta sui ‘passaggi’ parigini, a cui lavorava negli ultimi anni, Adorno scrive che ‘l’intenzione di Benjamin era di rinunciare ad ogni interpretazione manifesta e di far emergere i significati solo attraverso il montaggio a scatti del materiale. La filosofia non doveva solo adeguarsi al surrealismo, ma diventare essa stessa surrealista... A coronamento del suo antisoggettivismo, l’opera principale avrebbe dovuto consistere di sole citazioni’ ” (Renato Solmi, cit, p. XIII.)

[29] Marcel Jousse, cit. in Gabrielle Baron, Introduction a Marcel Jousse, Le Style oral, cit., p. 21.

[30] Ibidem, p. 21-22. Cfr. la procedura di Walter Benjamin: “Ora la scrittura di Benjamin è precisamente modellata sulla composizione a mosaico. Un disegno rigoroso e costruito con estrema sapienza è come riempito a poco a poco di tessere accuratamente lavorate e invisibilmente separate l’una dall’altra. (Altrove egli parla di una costruzione a gradini o a terrazze, che è un’altra immagine per lo stesso procedimento)” (Renato Solmi , cit., p. XII).

[31] Marcel Jousse, Le Parlant, la Parole et le Souffle, cit. p. 149- 150. Cfr. l’uso benjaminiano della citazione: “Le mie citazioni sono come predoni armati che balzano fuori d’improvviso e strappano l’assenso al lettore ozioso”. (Walter Benjamin, cit. in Renato Solmi, cit., p. XII).

[32] Marcel Jousse, Le Style oral, cit.,p. 27. Stessa importanza della traduzione in Walter Benjamin: “Per un altro rispetto, questo carattere dell’esposizione di Benjamin spiega il suo interesse per la traduzione, in cui non esita a riconoscere un genere particolare, quasi intermedio fra la creazione letteraria e la speculazione filosofica. Poiché la traduzione non è altro, in fondo, che una composizione a mosaico in cui si tratta di riprodurre una figura predeterminata; e la traduzione sta, nell’originale, come il mosaico al quadro (o allo schizzo) che riproduce”. (Renato Solmi , cit., p.XII).

[33] Marcel Jousse, Le Parlant ,La parole et le Souffle, cit., p. 149-150.

[34] Gabrielle Baron, Introduction, cit., p. 22.

[35] Stephen A. Tyler, L’etnografia post-moderna, in James Clifford e George E.Marcus (a cura di), Scrivere le culture, Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma 1997, pp. 167-168. Sull’etnografia postmoderna, oltre il volume precedente, l’altro classico indispensabile è George E. Marcus, Michael J. Fischer, Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma 1998 (con un’ importante Introduzione di Massimo Canevacci, dal titolo L’autorità della scrittura). Infine, Per una panoramica sull’argomento, cfr. Anna Marcone, Le nuove tendenze dell’antropologia culturale, in “La critica sociologica”, n.124, inverno 1997-1998, pp. 23-39.

[36] Sull’ “imitazione di Cristo” joussiana rinviamo al paragrafo primo della Parte seconda.

[37] Cit. in Avertissement au lecteur, in Marcel Jousse, Le Style oral, cit., p. 3.

[38] Cit. in Gabrielle Baron, Introduction, cit., p. 24.

[39] Frédéric Lefèvre, Marcel Jousse: une nouvelle psychologie du langage Librairie de France, Paris, 1926, p. 16.