Shakespeare e il ciabattino / Omaggio a Albert Camus
di Roberto Silvi (1982)




Shakespeare senza il ciabattino serve da alibi alla tirannia, il ciabattino senza Shakespeare viene assorbito dalla tirannia, ove non contribuisca ad estenderla

La turpe società di tiranni e di schiavi in cui sopravviviamo non troverà la sua trasfigurazione se non sul piano della creazione.

L'uomo in rivolta

"Trent'anni cambiano molte cose nella vita degli uomini, e talvolta fanno già tutta una vita." (1)

Io ho trentadue anni e la mia vita, è finita due anni fa

Decidere di ricominciarne una nuova è difficile, faticoso e a lungo ho dubitato che fosse il caso di intraprendere questo sforzo (che tra l'altro nessuno ci garantisce utile).

La tentazione del suicidio diventa allora forte. Ti si presenta come l'unico atto che valga la pena di compiere, come l'ultima e definitiva possibilità di gridare la propria protesta, il proprio desiderio di una felicità impossibile, di una felicità ad oltranza. E in questo, come in molte altre cose, credo di essermi accomunato a tanti altri compagni che a questa scelta sono arrivati e che l'anno portata alle sue estreme conseguenze.

Poi la speranza che qualcosa possa cambiare, una speranza sorda che pervicacemente resta presente in qualche posto nascosta della propria coscienza, e forse un innato spirito di contraddizione che mi spinge ad oppormi a tutto ciò che mi sembra mi venga imposto dall'esterno, ma non ancora l'amore per la vita (che mi sembra, ancora, si sia esaurito nella mia esistenza passata) mi hanno indotto a cambiare idea, a rilanciare contro me stesso e l’esistenza una nuova sfida di riuscita, pensando che valesse ancora la pena provare Una sfida contro la vita, ma soprattutto contro me stesso e quello che sono stato finora.

Ma in questo caso, bisogna ricominciare partendo dalle macerie di quanto ci si porta dietro della propria esistenza passata ed è necessario che esse siano ben consumate, ben bruciate dal fuoco delle esperienze passate. Ogni residuo sarebbe un ostacolo verso il nuovo

E l’attività politica (questo insieme di azioni che ti fanno sentire un essere vivente perché sempre soggetto attivo di un cambiamento continuo della propria esistenza con un ascolto attento della realtà e degli altri esser umani a te vicini) è stato lo scheletro su cui ho modellato tutta la mia esistenza passata. Uno scheletro che lascia enormi residui pietrosi difficili da eliminare, da far bruciare nel crogiolo della riflessione. Ci si inceppa, non si capisce, le cose da prendere in considerazione sono tante…

Queste pagine sono dunque un tentativo per cominciare a buttar fuori alcune cose, quelle che m sembrano aver inficiato alla base la riuscita di quel sogno inconfessato della mia vita, come di quella di altre centinaia di migliaia di persone delle quali ho condiviso la sorte: “strappare il fuoco agli dei“, prendersi collettivamente la possibilità di vivere bene, di dividere con altri la felicità, in un processo continuo di cambiamento.

E’ stato detto: il segreto è dirlo.

L'unica possibilità che abbiamo di liberarci dei nostri pensieri è di comunicarli, dire il nostro malessere, gridare la nostra insofferenza. E perché questo grido non sia un urlo inarticolato, un pianto di rabbia, bisogna parlare, bisogna scrivere, bisogna dire. Nel dire però ci si ripete, Voglio dire che non solo si ripetono cose che già abbiamo detto noi stessi, ma anche cose che sono state dette da altri.

Non bisogna, però, aver paura di ripetersi e di ripetere se si pensa che questo possa produrre benefiche riflessioni.

Quindi io ricomincerò a dire cose già dette ma che alla luce della mia esperienza, del vissuto di questi anni, risultano attuali e necessarie

L'ottimismo della ragione e il pessimismo della volontà.

Un dubbio mi ha sempre accompagnato avevo la sensazione che il mio non fosse sempre il modo migliore di realizzare il sogno che rincorrevo.

Poi cinque anni fa dopo un breve periodo di galera questo dubbio si è trasformato in insofferenza verso un modo di fare politica per il quale iniziavo ormai a provare addirittura disgusto. L'arroganza saccente di certi compagni e la loro sicurezza nel tranciar giudizi, quest'atteggiamento di sicumera che poteva essere sostenuto solo da una fede cieca e ottusa, mi sembravano sempre più insopportabili e così sclerotizzati da non potervi provocare nemmeno una scalfittura di dubbio.

La possibilità di poter in qualche nodo incidere su questo modo di far politica mi sembrava sempre più improbabile fino ad apparirmi impossibile.

La mia soggettività era ben poca cosa e poco poteva determinare nel cambiamento del quadro generale dei rapporti sociali specie in quelle condizioni. Tanto valeva astenersi. L'ottimismo della ragione mi ha aiutato a capire anche in questo caso il pessimismo della mia volontà, e ho cominciato così una specie di ritirata scettica e insoddisfatta

Sapevo di rinunciare, forse per sempre, all'unico modo di vivere che conoscevo: la lotta, la ribellione continua, la ricerca collettiva di nuovi percorsi esistenziali.

Ed il quadro in cui questo pessimismo della volontà si accresceva non era molto diverso da un incubo kafkiano.

Cominciavano a sgusciare fuori, come funghi, pentiti di ogni specie e sorte.

Quello che io vivevo come un personale delirio (in cui un sentimento di tradimento

delle ragioni originarie della mia attività politica si confondeva con un sentimento di sconfitta e di fallimento) si spiegava di fronte ai miei occhi come una tragedia collettiva che si allargava a macchia dolio. (2)

Sistemi di riferimento

Per molto tempo i tentativi di spiegazione giravano in tondo su se stessi diventando spesso solo auto-frustrazione e senso di impotenza con l’effetto di produrre lacerazioni profonde accresciute da un progressivo sconvolgimento di tutta la mia vita affettiva.

Poi recentemente la lettura de L'uomo in rivolta mi ha dato qualche strumento in più di comprensione. (3)

Sistematizzando alcuni miei pensieri mi ha ricondotto a ricercare le ragioni della separazione tra l'immaginario collettivo di quel fantastico atto di rivolta che è stato a lungo vissuto in Italia in questi anni, e la sua trasformazione nella realtà di un atto rivoluzionario.

Il problema era capire come mai tante aspirazioni si fossero ridotte per centinaia di persone in puro esercizio di una violenza sempre più organizzata e sempre più separata dalle sue originarie motivazioni, quelle ragioni che avrebbero dovuto legittimarla.

Come mai la violenza, quella organizzata, era diventata un feticcio, un odioso feticcio, che aveva finito per soffocare l'intero movimento ?

Per fortuna il movimento reale, quello che si è mosso in questi anni in tutti gli angoli della penisola, ha continuato e continua ad esistere, anche se non ha potuto fare a meno di risentire di questa cappa che in qualche modo gli era stata imposta.

La vita quotidiana di milioni di persone è cambiata, la società italiana è stata trasformata in questi anni fino a raggiungere, in alcuni aspetti, dei gradi libertà tra i più avanzati nel mondo occidentale. I rapporti umani sono cambiati radicalmente e non solo per quanto riguarda i rapporti interpersonali tra uomini e donne, ma anche in fabbrica, sui posti di lavoro. Le gerarchie sono state stravolte, intaccate. Lo schiavo si è ribellato rivendicando tutta intera la sua dignità umana, in fabbrica come nelle famiglie. (4)

E lo ha fatto riconoscendosi solidale ad ogni altro essere umano. La crasi si è verificata nel passaggio da questo atto genuino di rivolta, che è stato pienamente vissuto in Italia in questi anni, alla sua organizzazione in movimento rivoluzionario per la presa dei potere, in uno schema classico di trasformazione della società.

L’aspirazione ad una assenza di potere stata trasformata in lotta per la presa del potere, e gli uomini in rivolta. della nostra generazione hanno tradito le ragioni della loro aspirazione facendosi rivoluzionari di professione.

Rivolta e rivoluzione ne L’uomo in rivolta

Questa distinzione tra rivoluzione e atto di rivolta definita con precisione da Camus risulta estremamente utile e interessante per comprendere i processi che si innescano in seguito ad un movimento di rivolta e che tendono a stabilizzare e codificare i valori a cui la rivolta allude. (5)

L'atto di rivolta è nato con l’uomo stesso. E' un atto che nega la realtà, rifiutando la condizione che lo ha generato, ma contemporaneamente ne afferma implicitamente una per la quale vorrebbe la pena vivere e con essa dei valori per i quali vale le pena rischiare anche la propria vita. Nasce dal riconoscimento da parte dello schiavo di un limite oltre il quale non è più possibile andare, oltre il quale non è più possibile che il suo padrone vada.

Nel riconoscimento di questo limite l'atto di rivolte, invoca un valore , quello della solidarietà tra gli uomini. Riconoscendosi un pari diritto alla dignità umana di quello del suo oppressore, lo riconosce anche per i suoi simili e per il padrone stesso. Riconoscendo il limite della libertà concessa al padrone riconosce i limiti della sua libertà.

La sua è limitata dalla libertà inalienabile degli altri ad esistere. Non è un atto di vendetta, è un atto di rivendicazione, è un atto che afferma e nell'immediato l'esistenza di valori per cui vale la pena ribellarsi, per i quali vale la pena vivere. E il primo valore è appunto la solidarietà umana. In essa la violenza non è ammessa che nel momento in cui irrazionalmente si presenta come l'unico mezzo per affermare la propria ribellione.

L’omicidio non può essere ammesso che a condizione di mettere in pericolo la propria vita, (7) non ci si rivolta per un futuro lontano a venire ma per il presente, in nome della vita e dell'essere umano nella sua interezza.

Il rivoluzionario in un tentativo di razionalizzazione dei motivi originari della rivolta finisce per tradirli o rinnegarli.

Aspira all'assoluto, ad un mondo perfetto dove non esisteranno più contraddizioni, dove per incantamento con l'eliminazione delle classi si elimineranno i conflitti sociali e la stessa necessità della violenza. Dove la libertà degli oppressi di un tempo diventerà assoluta e la solidarietà degli uomini sarà codificata in leggi opportunamente garantite da uno stato rivoluzionario che le farà rispettare a chi. avrà qualcosa da ridire contro questo nuovo ordine.

Il rivoluzionario di professione predica la razionalità e pratica l'utopia di un mondo onirico che si realizzerà se adesso gli uomini sapranno sacrificarsi per fare la rivoluzione che libererà tutti. (8)

Quello che è richiesto all'uomo non è più la ribellione continua e il riconoscimento della condizione che lo accomuna agli altri uomini, la necessità di riconoscersi e confondersi in essi, ma di separarsi da una massa che non saprà elaborare da sola la teoria rivoluzionaria che la renderà finalmente libera. (9)

Lenin, che è stato il primo e il più grande rivoluzionario ha chiaramente definito la funzione del piccolo nucleo di ferro che conduce le masse alla vittoria, che le dirige e dice loro come lottare per superare l'atto spontaneo e improduttivo, l'inutile empirismo. E in seguito, una volta preso il. potere , si occuperà di organizzare uno stato che modifichi la realtà nel senso in cui il partito e la giusta linea rivoluzionaria hanno deciso che vada.

Ovviamente ogni oppositore sarà punito come eretico anche per il solo fatto di non essere sufficientemente cattivo nella costruzione del sistema degli uomini liberi.

Nel modello rivoluzionario c’è bisogno di fede nell'avvenire, e in nome dell'avvenire bisogna essere disposti a sacrificare tutto, anche le motivazioni della propria rivolta, anche quei valori per cui si voleva lottare, in nome di un futuro radioso allora, il rivoluzionario, questo nuovo dio sulla terra che tutto sa spiegare e di tutto conosce il perché, si sente legittimato a giudicare, a punire, a giustiziare. Il famoso detto mecchiavel1ico escogitato per un sistema monarchico totalitario diventa il suo motto. Così pensando che il fine giustifica i mezzi si autorizzerà qualsiasi scelleratezza per poi accorgersi, poi forse, che i mezzi hanno determinato i fini. (10)

La rivoluzione tradisce così le sue origini diventando disumana e in nome di un paradiso in terra, di cui si annuncia l'ineluttabile avvento, si giustifica la sofferenza e l'esercizio dell’arbitrio nel presente. (11)

Una rivoluzione che non rinneghi i valori di cui è portatrice, che non rinneghi le sue origini ribelli e mantenga al centro della sua azione il valore della solidarietà umana, è cosciente della portata 1imitata della sua azione, dei limiti che gli sono imposti dalla realtà della sua dimensione umana. e non divina. (12) È un processo che approssima asintoticamente una condizione ideale di libertà e di solidarietà tra gli uomini, sapendo di non poterlo mai raggiungere.

Accettando una ragionevole colpa nella sua azione, che non si potrebbe immaginare priva dell'esercizio di un atto di violenza, il rivoltoso accetta anche una ragionevole misura all'esercizio della libertà, in nome della solidarietà con gli altri suoi simili. Non tende all'assoluto ma esiste accettando in il relativo. (13)

La storia, Camus e noi

Prendere Camus e il suo Uomo in Rivolta a pretesto e guida per sviluppare queste considerazioni può sembrare fuori luogo dato il periodo abbastanza lungo passato tra il 1952, data della sua pubblicazione e i giorni nostri, ma allora cosa ci sarebbe di più anacronistico, per fondare la propria ideologia, di riferirsi ad analisi vecchie di cento e passa anni?

Il tipo di critiche di ripetono proprio perché i riferimenti teorici si ripetono uguali a stessi come una dottrina.

Se si guarda poi il nostro recente passato da un punto di vista storico, le considerazioni che sono state fatte finora possono non soddisfare l’esigenza di comprensione di quanto è accaduto non prendono in conto per niente considerazioni analitiche sulle cause, oggettive o meno, del fenomeno italiano degli anni '70.

Giustappunto, però, non c'è nessuna intenzione di entrare nel merito di queste cose che meritano tempi e modi di analisi ben differenti.

L'intenzione è invece di spostare per un momento l'attenzione su quella componente soggettiva della storia, la sua componente umana, che in definitiva è la sola che conta sulla scala esistenziale dell’essere umano.

Nel limbo della storia, si sa, la nostra avventura occuperà al massimo una pagina dei futuri testi che racconteranno gli avvenimenti del XX secolo e forse una decina di pagine in quelli dei futuri marxisti ortodossi che potranno tranquillamente concludere che la nostra è stata solo una battaglia persa nella millenaria guerra tra capitale e classe operaia.

Tutto quadrerà ancora come prima e si potrà ricominciare fare gli stessi errori con gli stessi sogni.

Con sguardo storico e in qualche modo esterno agli avvenimenti non possiamo che assolverci. La violenza esercitata dal movimento è stata infinitamente più giustificata e meno immorale di quella messa in opera da un potere marcio fino alle sue fondamenta.

Questo, però, non ci assolve ai nostri stessi occhi e non rende conto della sconfitta che abbiamo subito.

E proprio perché essa non è la sconfitta di tutto il movimento né la sconfitta di ogni possibilità di rivolta, una riflessione vissuta dall'interno degli avvenimenti diventa necessaria, in nome di quei valori umani sempre ignorati dagli storici, e che non possono essere ridotti ad una lettura statistica di dati. (Quando degli operai di una fabbrica entrano in sciopero è vero che lo fanno per dei motivi economici, ma è solo questa la ragione o piuttosto in essa vi è la rivendicazione di una dignità umana che gli viene negata in un lavoro abbrutente e ripetitivo?)

D'altra parte anche in questo non si scopre niente di nuovo. Il movimento degli anni '70 si è sviluppato su questi temi e su di essi è cresciuto. La vitalità creatrice di cui ha dato prova lo ha messo a riparo a lungo da facili scorciatoie. Poi coloro che si ritenevano le avanguardie si sono poste la “questione dei potere” dando, essenzialmente due tipi di risposte che sono in qualche maniera l'una l'immagine dell'altra.

Da un lato alcuni gruppi hanno intrapreso una via istituzionale al potere politico, accettando il gioco delle parti dei sistema di oppressione dominante, arrivando talvolta a giustificarne le scelte repressive.

Dall'altra si sono operate forzature verso l'armamento del movimento, ritenendo necessaria la presa del potere centrale, affermando, fin da subito, il diritto di esercitare il sistema di oppressione 'diversa' che esso implica.

Anche so molte sono state le differenze che hanno variegato la miriade di gruppi armati esistenti, sostanzialmente tutti assumevano, coscientemente o no, la funzione strategica della lotta armata come un dato di fatto irrefutabile e ad essa sacrificavano ogni altra iniziativa. Si è giunti a semplificazioni di una grossolanità eccezionale, sul piano della lotta politica, fino a disprezzare qualsiasi lotta che non si ponesse immediatamente sul piano armato.

La lotta sindacale, considerata improduttiva rispetto alla presa del potere, cedeva il passo all’organizzazione clandestina.

La violenza così, secondo il paradigma leninista, è diventata da necessaria ma indigesta, accettata e divinizzata. (14) Quella che è l’ultima arma a cui fanno ricorso delle masse in rivolta, a prezzo della propria vita, è diventato un feticcio senza il culto dei quale non si aveva diritto alla parola.

“Gli dei in terra”, i rivoluzionari, si sono assunti il diritto di giudicare, in un orribile e crescente delirio che dalle prime azioni a carattere quasi sindacale, ha portato a barbare esecuzioni.

La violenza razionale si contrappone in questo caso, a quella razionale come, nello schema camusiano, la rivoluzione si contrappone alla rivolta.

La violenza irrazionale è profondamente umana, comprensibile e, qualora motivata dalla necessità di ribellione è giustificabile. E' la stessa violenza dell’oppressore che induce ad un atto violento di ribellione, ed è lo stesso sistema di oppressione sociale che induce prima o poi una collettività in rivolta ad uno scontro violento. (15)

Le lotte sindacali dei primi anni del secolo in America, o le stesse lotte operaie in Italia degli anni '60 o '70 , sono, in scala sociale, l'esempio di lotte dove la violenza ha raggiunto anche nomenti di grave tensione ma che non si è mai staccata dalle sue motivazioni immediate dovute allo specifico momento di agitazione. Azioni di questo tipo (vedi ancora le lotte alla Citroën, in Francia) evitano la schizofrenia organizzativistica e restano profondamente legate al senso, alla necessità dell'atto di ribellione. L'effrazione violenza è in questo caso imposta dalle circostanze, misurata dagli stessi obbiettivi e provvisoria (recenti avvenimenti storici ci hanno mostrato la potenza che movimenti di massa, poco o per niente armati possono sviluppare).

Prima ancora di inquadrarsi in un contesto generale di rivendicazioni, la lotta operaia segue un impulso irrazionale di ribellione e di insofferenza. che sorge fisiologicamente all'interno dì un corpo sociale omogeneo. La vio1enza razionale, all'opposto, è disumana e separata dall'atto di rivolta. E' la violenza che si pone al servizio dell'ordine, quella esercitata da tutti gli Stati del mondo in maniera assoluta perché assoluto è il loro diritto di rappresentanza della volontà generale.

La sua giustificazione sta in un ragionamento razionale che per definizione è suscettibile di errore e di confutazioni eclatanti che ne possono dimostrare la falsità. Un ragionamento razionale non può essere il fondamento di una fede ma dell'incertezza.

Nel mondo illogico della politica, il razionale diventa fondamento di nuovi catechismi di nuove immutabili leggi, di nuovi mondi perfetti da costruire. E' quello che Milan Kundera chiamerebbe il kitsch della politica di sinistra. Ed in nome di questo kitsch, di questo certezze assolute si giustifica la miseria delle azioni del presente.

Migliaia di persone, ed io tra queste, a vario titolo e misura, per un periodo più o meno lungo, con responsabilità più o meno importanti, e convinzione più o meno accentuata, hanno rincorso l'incredibile illusione di essere delle avanguardie, di essere un'èlite che aveva il diritto, il dovere di fare la rivoluzione, come fosse un oggetto, un palazzo da costruire mattone dopo mattone. E in nome di questo diritto/dovere, diciamolo pure, un po' da preti che si sentono chiamati ad assolvere una missione, si sono arrogate il diritto di giudicare in nome della classe, spesso andando contro i principi che loro stesse professavano. In nome della libertà assoluta praticavano un cieco giustizialismo.

Se le galere sono orribili, allora lo sono per tutti e se aspiriamo allo loro eliminazione, questo deve valere per tutti. Non possono esistere le galere del popolo. Se è giusto che la pena di morte non esista allora nessuno, nessun tribunale popolare, può assumersi il diritto di decretarla.

Per un uomo in rivolta, per un rivoluzionario che non rinunci ai valori della rivolta, non possono esistere eccezioni che inficino i suoi principi.

Questi devono essere affermati, giorno per giorno, e se la violenza, come spesso accade nei movimenti di rlvo1ta si presenterà come un'arma necessaria da utilizzare allora lo si farà nel vivo di una battaglia e di uno scontro collettivo, dove la ragionevole colpa dell'esercizio di una violenza non razionale, ma necessaria, quasi autodifensiva, sarà compensata dal sacrificio di uno scontro ad armi pari col nemico.

Pentimento e dissociazione

Nell'analisi fatta da Camus in relazione agli sviluppi degenerati dei paesi a socialismo reale, è proprio l’individuazione di questo tradimento dei valori profondi della rivolta, che può essere considerata attuale quale punto di riferimento teorico di non ritorno: appello continuo alla coerenza nella ribellione.

La rottura con il movimento di rivolta, che si era espresso e ha continuato a lungo ad esprimesi in Italia, ha causato le forzature teoriche e le degenerazioni pratiche che hanno progressivamente soffocato la vitalità del movimento costretto a passare attraverso le forche caudine di strutture sempre più organizzate, sempre più clandestine, sempre più inafferrabili, sempre più incomprensibili. (16)

Ed è stato, secondo me, questo allontanamento che ha prodotto, come sua naturale conseguenza, il fenomeno della dissociazione. Bisogna parlare di dissociazione e non di pentimento perché questi due fenomeni hanno ormai una connotazione precisa e indipendente di carattere giudiziario di cui bisogna tener conto, ma per essi si può individuare un’origine comune anche se con modi e motivazioni personali opposte.

Per i grandi pentiti il problema si potrebbe chiudere dicendo che erano degli opportunisti già da prima e che hanno continuato ad esserlo anche dopo, una volta in galera. Il fenomeno avrebbe una natura ottica, speculare inerente ad alcuni individui che rimanendo fedeli a se stessi hanno compiuto una rotazione intorno all'asse del proprio opportunismo e hanno cambiato semplicemente bandiera adattandosi alla nuova situazione.

Ma anche qui bisognerebbe riflettere. Come mai dei personaggi simili hanno avuto tanta influenza, assunto tante responsabilità al punto di conoscere se non dirigere tanta gente che poi hanno alla fine mandato in galera? Anche in questo caso la soluzione è drammaticamente semplice e data dall'equazione duro uguale a capo politico. Se la lotta armata assume un'importanza prioritaria, chi è più disposto a praticarla, anche se ottusamente, è automaticamente più degno di fiducia e di rispetto. E così i più grossi idioti solo perché capaci di fare la voce grossa o perché riuscivano bene a vestire l'abito dei duri (abito che avrebbero comunque indossato magari come capibanda di quartiere) diventavano personaggi la cui fama si diffondeva tanto più quanto più erano stupidi ed esibizionisti. (17)

Di tanto in tanto qualche eccezione capitava in un senso (gente reputata 'dura' che non lo era) o nell'altro (“duri” che non amavano farsi troppa pubblicità). Ma erano appunto delle eccezioni.

Più tragicamente significativo è invece il fenomeno dei dissociati, dei semipentiti, degli ammittenti o dei muti resistenti. Qui un genuino processo di pentimento si denota, la cui causa non è da ricercarsi nelle leggi eccezionali (come spesso fanno gli ideatori di questa mostruosa macchina giuridica), ma in un processo interno allo stesso movimento.

E’ stata una lenta eutanasia autogeneratasi nel corpo stesso del movimento che si è trovato nell'impossibilità di svilupparsi come poteva. Costretti a scegliere tra rivolta e rivoluzione (la rivolta razionalizzata in una rivoluzione sempre più attratta e lontana dalle sue originali motivazioni) molti hanno scelto la seconda, trovandosi ben presto di fronte alla constatazione di aver tradito le originali ragioni dell’atto di rivolta che li aveva mossi.

La solidarietà di classe diventava desolidarizzazione di setta, l'unità dell'essere ricercata come fine immediato si trasformava in schizofrenia armata, il riscatto dall'oppressione del quotidiano diveniva sete di vendetta, autorizzazione al giudizio sommario e arbitrario fino a colpire i propri alleati, a scatenare lotte intestine. (18)

Il desiderio di affermare la propria umanità, di svilupparla in tutti i suoi aspetti in una libertà piena, finalmente rivendicata con un gesto di rivolta, era rinnegato, rimosso in nome della collettività e la sua realizzazione proiettata in un futuro a divenire.

Di fronte ad un fallimento sempre più evidente, come non provare, allora, orrore delle proprie azioni.

Cosi, in un dostojevskiano processo interiore, questa volta collettivo, la coscienza si rivolta ancora una volta contro i propri errori ed aspira naturalmente ad un atto che la riscatti. Un atto che questa volta sarà solo verbale. Parlare dire che si è sbagliato che quello che si è fatto non è precisamente ciò che si voleva fare. Che si è ceduto ad una imposizione razionale che sembrava ragionevole, e armata dalla forza della necessità.

Si voleva l'impossibile e si è praticato il possibile cedendo a pratiche mutuate da sistemi tutt’affatto criticabili e perfino criticati.

(Quanti erano stati gli esempi delle rivoluzioni fallite che la storia ci aveva dato? Rivoluzioni che si erano trasformate in produzione di sistemi per l'esercizio di un potere assoluto e terroristico?

Ma i “materialisti storici” nostrani preferiscono essere contro la storia e riaffermare in microcosmo quegli stessi principi che altrove hanno già portato alla rovina. Fanno allora un partito, possibilmente armato!)

I fini sembravano giustificare i mezzi, perfino nobilitarli, ma sono stati da essi stravolti. I mezzi sono diventati loro stessi dei fini facendo svanire in un orizzonte sempre più lontano l'avvento di un “mondo nuovo”.

E allora come condannare chi si dissocia; L'unico rimprovero è che questi ripensamenti avvengano di fronte ad un giudice. (19) Ma questo attiene al desiderio di chiudere col passato e all'impressione di essere destinati a cent'anni di solitudine, di morte in vita, di non avere più alcuna via di uscita se non il riconoscimento dell'autorità del proprio giustiziere. L’ultimo prezzo che questi esigerà sarà l’autoannullamento dell’accusato, la negazione di se stesso nella negazione della possibilità di essere ancora capace di un atto di rivolta, l'unico che ancora potrebbe riscattare la propria umanità

Una volta il riconoscimento della propria colpa poteva avvenire davanti alla collettività poggiando le mani su un capro espiatorio. Poi la religione cattolica ha individualizzato la colpa e il pentimento ufficializzando nel prete il potere di assolvere. Oggi, in un mondo ateo, è il giudice il solo a poter perdonare. (20) Si può allora capire che a chi sta in galera e voglia continuare a vivere, non importa come, possa scattare un meccanismo di riconoscimento dell'autorità del giudice Chi sta fuori, non credo abbia il diritto di giudicare, ma forse solo di commiserare chi così facendo, abbandona qualsiasi desiderio di vivere in pace con se stesso.

Un sorriso amaro sorge invece spontaneo quando si vede qualcuno teorizzare sulle ceneri dei movimento anche la propria miseria o addirittura, riprendendosi il ruolo di mosca cocchiera che lo ha sempre contraddistinto, riproporsi come l'unica alternativa per il potere, come l'unico personale politico di ricambio e proprio in nome del suo inglorioso passato. La sua aspirazione sarebbe di collaborare a ricostruire, a rifondare la società. E viene da pensare che se ci riuscisse potrebbe fondare solo una società peggiore di quella attuale.

La distinzione tra rivolta e rivoluzione resta intatta.

Bisogna prendere il potere o distruggere ogni potere e sistema di oppressione?

La rivolta e i valori di cui è portatrice sono l'unico patrimonio che possiamo conservare di questa nostra vita passata. E' l'unica risorsa che ci resta contro chi ci vorrebbe regolamentati.

Saremo sconfitti, ma ancora vivi, se sapremo rivoltarci ancora. Contro gli errori del nostro passato ma anche contro chi ci vorrebbe finiti.

“Mi rivolto, dunque sono!” è l'unica eredità che possiamo tramandare.

Rivoltatevi ma non tentate di fare una rivoluzione per stabilire un “nuovo ordine”, sarebbe l'inizio della fine. (21)

Il vecchio ordine si smantellerà da solo sotto i colpi di una rivolta continua e innocente portatrice solo di “ragionevoli colpe”. E quando la necessità di trasformare la rivolta in rivoluzione si imporrà, che sia una rivoluzione fedele alle sue origini. Guidata da una filosofia della misura e non dell’onnipotenza, del relativo e non di un impossibile assoluto. Che lotti per una giustizia specchio di una libertà limitata dalla solidarietà tra gli uomini, non per una giustizia vendicatrice in nome di una libertà assoluta che può dare come frutti solo un’oppressione generalizzata.





Note
  1. Introduzione di Corrado Rosso a L’uomo in rivolta di Albert Camus. Ed. Nuovo Portico Bompiani.
  2. Gia dal novembre 1980 tentavo una prima analisi del fenomeno nel contributo che avevo dato alla stesura dell'introduzione al libro I maestri cantatori di V. Serge, ed. “Senza Galere”. In quell'occasione scrivevo tra l'altro:
    “Dei bassifondi dell'anima umana, di cui parla Serge, abbiamo avuto esempi aberranti incarnati nei nostrani maestri cantatori. Ma alcuni aspetti nuovi, assunti dal fenomeno della delazione in Italia e in Europa, il suo essere in parte frutto del movimento, la sua relativa estensione, meritano qualche considerazione in più.
    Una delle tecniche fondamentali che il potere ha usato ed usa per rompere la compattezza di classe espressa dall'antagonismo organizzato e non è la “desolidarizzazione”. Essa. ha due scopi fondamentali: i1 primo consiste nel delegittimare i movimenti rivoluzionari e le loro proposte... Il secondo consiste nel creare divisioni e contrasti all'interno delle organizzazioni rivoluzionarie e del movimento più in generale. E' la desolidarizzazione il seme che il potere sparge all'interno del movimento e nella società col proposito di generare delazione e rinuncia . La “chiacchiera”, farfalla capace di volare con leggerezza e velocità incredibili, tante volte denunciata come male nefasto dai gruppi e dai personaggi più diversi nel corso della storia., ha ancora il potere di condizionare i comportamenti. Una parola detta all'orecchio di qualcuno sul conto di qualcun altro e il gioco è fatto. Il sospetto, la denigrazione o l'ammirazione, secondo i casi, si diffondono... è questa la fragile struttura di molte delazioni dei pentiti nostrani”...
    E più avanti l’introduzione così continuava:
    “Perché mai in certi momenti storici si registra un’inusitata fioritura di idolatria statuale?
    Non è possibile dare risposte ad una così. complessa domanda, se non spostando l'attenzione sul problema dell'autorità morale e storica, così come sulla questione, che qui necessariamente semplifichiamo, delle aspettative materiali e ideali suscitate in determinate circostanze dall'autorità rivoluzionaria.”
    Era un modo già di porre la questione anche se in maniera ancora molto interna alla bruciante situazione del momento, che comunque cercava di cogliere, anche se non li approfondiva, alcuni aspetti del fenomeno pentitismo.
  3. L'uomo in rivolta di A. Camus
  4. “… nella rivolta l'uomo difende ciò egli. stesso è... nel suo primo movimento di rivolta l'uomo rifiuta di lasciarsi toccare in quello che è. Lotta per l'integrità di una parte del proprio essere. Non cerca innanzitutto di conquistare ma d'imporre ...la rivolta, da principio si limita a rifiutare l'umiliazione senza chiederla per altri..., non insisteremo mai troppo sull'affermazione appassionata che scorre .el moto di rivolta e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché nulla crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto nell'uomo è sempre da difendere." pgg. 22 - 24

  5. “Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, m ogni moto di rivolta fa tacitamente appello ad un valore ....Lo schiavo, nell'attimo in cui respinge l'ordine umiliante del suo superiore, respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo... si getta di colpo (‘se è così...’) del Tutto o Niente. La coscienza viene alla luce con la rivolta...
    Al limite (l'uomo in rivolta), accetta quella estrema caduta che è la morte, se dev’essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la propria libertà.... L'insorgere dei Tutto o Niente mostra che 1a rivolta, contrariamente all'opinione comune, e benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell'uomo, mette in causa lo stesso concetto d'individuo. Se preferisce l'eventualità della morte alla negazione dei diritto che difende, è perché pone quest’ultimo al disopra di sé. Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte almeno di avere in comune con tutti gli uomini ... Ma importa osservare fin d'ora; che questo valore preesistente ad ogni azione contraddice alle filosofie puramente storicistiche nelle quali il valore viene conquistato (ove lo si conquisti) al termine dell'azione... E’ per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schivo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che l'insulta e l'opprime, hanno pronta una comunità”. pgg. 18 - 20
  6. Lungi dal rivendicare un'indipendenza generale, l'uomo vuole si riconosca che la libertà ha i suoi limiti ovunque si trovi un essere umano, il limite essendo appunto costituito dal poter di rivolta di quest'essere ... L'insorto esige senza dubbio una certa libertà per sé, ma in nessun caso, se è conseguente, il diritto di distruggere l'essere e la libertà dell'altro... Non è soltanto schiavo contro il signore, ma anche uomo contro il mondo dei signore e dello schiavo. pag. 310
  7. “Assegnando all'oppressione un limite entro il quale comincia la dignità comune a tutti gli uomini, la rivolta definiva un primo valore. Metteva in primo piano, tra le sue referenze, una complicità trasparente degli uomini tra loro... Con questo progresso rendeva ancora più angoscioso il problema che deve ora risolvere di fronte all'omicidio... Poiché si tratta di decidere se sia possibile uccidere qualsiasi uomo di cui proprio ora abbiano finalmente riconosciuto la somiglianza e consacrato l'identità...
    L'uomo in rivolta non ha che un modo di riconciliarsi col suo atto omicida, se vi è lasciato portare: accettare la propria morte e il sacrificio.” pgg. 307 - 308

    E' questo un punto delicato nell’analisi di Camus, che credo, più di ogni altro, gli abbia fatto meritare l'accusa di moralista.
    Riportandosi all' Italia dei nostri giorni, credo di poter condividere questo giudizio riferito all'attentato politico omicida.
    In uno scontro di piazza, nella difesa di un'occupazione, in ogni circostanza di questo tipo a carattere collettivo, la parità delle armi è piuttosto da conquistare e la possibilità di mettere a.rischio la propria esistenza è superiore a quella di uno qualsiasi dei poliziotti che ti fanno fronte.
  8. “Alla fine dell'ottocento e ai primi del novecento, il movimento rivoluzionario ha vissuto come i primi cristiani nell'attesa della fine del mondo e della parusia del Cristo proletario. E' nota la persistenza di questo sentimento alle comunità cristiane primitive. Ancora alla fine del quarto secolo, un vescovo dell'Africa preconsolare calcolava che restassero cento e un anni da vivere al mondo... Questo sentimento è generale nel primo secolo della nostra era e spiega l'indifferenza che mostravano i primi cristiani alle questioni puramente teologiche. Se la parusia è prossima, è alla fede infiammata che bisogna consacrare tutto più che alle opere e ai dogmi...
    Ma dall'istante in cui la parusia si allontana, bisogna vivere con lu propria fede, vale dire scendere a patti. Nascono allora la devozione e il catechismo... Un movimento analogo è nato dal fallimento della parusia rivoluzionaria. I testi di Marx già citati danno una perfetta idea dell'ardente speranza che era allora propria allo spirito rivoluzionario. Nonostante i fallimenti parziali questa speranza non ha cessato di accrescersi fino al momento in cui si e trovata, nel 1917, davanti ai suoi sogni quasi realizzati... La rivoluzione russa rimane sola , viva contro il proprio sistema, ancora lontana dalle porte celesti, con un'apocalisse da organizzare. La parusia si allontana ancora. La fede è intatta, ma piega sotto un'enorme massa di problemi e di scoperte che il marxismo non aveva previsto. La nuova chiesa è di nuovo davanti a Galileo: per conservare la sua fede, negherà il sole e umilierà l'uomo libero." pgg. 231 - 232
  9. “I socialisti autoritari hanno ritenuto che la storia andasse troppo a rilento e che per accelerarla, si dovesse affidare la missione del proletariato a un manipolo di. dottrinari. Appunto per questo essi sono stati i primi a negare tale missione. Essa esiste, tuttavia, non nel senso esclusivo che le attribuiva Marx, ma come esiste la missione di ogni gruppo umano che sappia trarre fierezza e fecondità dal proprio travaglio e dalle proprie sofferenze:” pg. 238
  10. “Ma ogni socialismo è utopista, e per primo il socialismo scientifico. L’utopia sostituisce a Dio l'avvenire. Essa identifica allora avvenire e morale: solo valore quello che serve tale avvenire. Di qui il suo essere stata, quasi sempre, coercitiva e autoritaria. In quanto utopista, Marx non differisce sui suoi terribili predecessori, e una parte del suo insegnamento giustifica i suoi successori. Certo s'è avuto ragione di insistere sull’esigenza etica che sta in fondo al sogno marxista... Esigendo per il lavoratore 1a vera ricchezza, che non è quella del denaro, ma quella degli svaghi o della creazione, egli ha rivendicato, nonostante le apparenze, la qualità dell'uomo. Facendo questo, lo possiamo affermare con forza, non ha voluto la degradazione supplementare che e stata, in suo nome, imposta all'uomo. Una frase, per una volta chiara e tagliente, rifiuta per sempre ai suoi discepoli trionfanti la grandezza e l'umanità che gli erano proprie: 'Un fine che ha bisogno di mezzi ingiusti non è un fine giusto. ' pgg. 228 - 229
  11. “Una concezione puramente storicistica è dunque nichilista: essa accetta totalmente il male della storia, e si oppone in questo alla. rivolta. Per quanto voglia affermare in compenso la razionalità assoluta della storia questa ragione storica non sarà compiuta, non avrà un suo senso intero, non sarà appunto ragione assoluta e valore, se non alla fine della storia. Intanto bisogna agire, e agire senza norma morale perché la norma definitiva venga alla luce. Il cinismo come atteggiamento politico non è logico se non è .funzione di una concezione, assolutista, cioè da un lato il nichilismo assoluto, e dall'altro il razionalismo assoluto. Quanto alle conseguenze non esiste differenza tre i due atteggiamenti. Dall'istante in cui vengono accettati, la terra e deserta." pg. 315
  12. Vedere capitolo Misura e dismisura. Ibidem.
  13. “Quanto alla rivolta,essa non tende che al relativo e non può promettere altro che una dignità certa,congiunta a une giustizia relativa ... un'azione rivoluzionaria che voglia essere coerente con le proprie origini si dovrebbe riassumere in un consenso attivo al relativo... Sarebbe fedeltà alla condizione umana… Intransigente sui mezzi, accetterebbe l'approssimazione in quanto ai fini, perché l'approssimazione venga progressivamente a definirsi lascerebbe libero corso alla parole. Manterrebbe così quell'essere comune che giustifica la sua insurrezione.” pgg.316 - 317
  14. "Nella storia considerata come assoluto, la violenza si trova legittimata; come rischio relativo, essa costituisce una frattura nella comunicazione lieve dunque. Deve dunque serbare, per 1'insorto, il suo carattere di provvisoria effrazione, andar sempre congiunta, se non può evitarsi, a una responsabilità personale, a un rischio immediato. La violenza sistematica si colloca nell'ordine; è, in certo senso, comoda...
    Se l'eccesso di ingiustizia rende quest'ultima impossibile, a evitarsi, chi sia fedele alla rivolta rifiuta in anticipo la violenza al servizio di una dottrina o di una. ragion di stato" pg. 318
  15. Delitto irrazionale e delitto razionale, infatti, tradiscono ugualmente il valore messo in luce nel moto di rivolta...
    … il nichilismo confonde nello stesso furore creatore e creatura. sopprimendo ogni principio di speranza, respinge ogni limite e l'accecamento di un'indignazione che non scorge più nemmeno le proprie ragioni, finisce col giudicare che sia indifferente uccidere quanto è già destinato alla morte... La libertà assoluta, quella dî uccidere, è la sola a non reclamare insieme a se stessa ciò che la limita o l'oblitera. Si scinde allora dalle proprie radici, erra alla ventura ombra astratta e malefica, fino a che s'immagina di trovar corpo nell'ideologia. E' dunque possibile dire che quando sfocia nella distruzione, la rivolta è illogica... la sua intima logica non è quella della distruzione; è la logica della creazione."op.cit. pgg; 309 a 311
    … Ma se l'uomo fosse capace d'introdurre da solo l'unità nel mondo , se potesse farvi regnare per suo solo decreto, la sincerità, l'innocenza e la giustizia, sarebbe Dio stesso... L'insorto non può dunque pretendere assolutamente di non uccidere o mentire, senza rinunciare alla sua rivolta o accettare una volta per tutte l'omicidio e il male. Ma non può nemmeno accettare di uccidere o mentire... L'uomo in rivolta non può dunque trovare requie... in ogni caso se non sempre può non uccidere, direttamente o indirettamente, può volgere la sua febbre e la sua passione a diminuire intorno a sé la probabilità di omicidio... Se egli stesso uccide, in fine, accetterà la morte... pgg. 309 - 312
  16. Uno degli esempi che forse maggiormente hanno approssimato in Italia un moto di rivolta coerentemente vissuto sono stati i Nap.
    Anche loro hanno poi ceduto alla frenesia organizzativistica (fino ad entrare nelle BR), ma nella loro maggioranza hanno vissuto una loro breve stagione intensamente e in maniera genuina con un avventurismo che era pari solo alla loro sete di riscatto esistenziale e di desiderio di libertà, bruciata nel desiderio di vivere in fretta. La loro avventura è stata una delle pagine più belle che il movimento di questi anni abbia saputo scrivere.
  17. Ognuno ha il suo pentito, e poiché ci conosciamo tutti, ognuno riconosce quali coglioni lo mettono nei guai. Anch'io ho il mio pentito, ma lui, in un certo senso, è un'eccezione, una particolare eccezione che segue la regola in maniera originale. Egli mi accusa, ma forse non avrebbe voluto farlo. Ha messo nella merda decine e decine di compagni ma immagino che lo abbia fatto a malincuore, soffrendo, seguendo un processo inerziale, quasi indipendente da lui. Accettando il pentimento come un'ultima obbligazione a cui sottomettersi prima di diventare. un uomo completamente finito. Io lo conosco bene: abbiamo fatto il militare insieme ("a Cuneo" direbbe Toto) ed è sempre stato così. Un tipo buono, generoso, taciturno che ispirava tenerezza e che aveva bisogno di legarsi a qualcuno di amicizia profonda, perché potesse avere fiducia in se stesso attraverso la fiducia. che l'altro gli confidava. Ogni tanto, molto raramente, aveva degli scatti di nervi, di orgoglio che non gli si addicevano per niente. Ed è forse in alcuni di questi eccessi che ha preso le decisioni più importanti, risultategli poi fatali. Erano i momenti in cui aspirava ad una sua propria autonomia (che con difficoltà perseguiva). Non ha mai molto discusso di. politica, né si sforzava di farlo. Lui voleva semplicemente partecipare alla lotta e lo ha fatto nell'unica maniera in cui è stato capace di farlo: abbracciando ciecamente la lotta armata. Vincendo enormi paure, immagino, inventandosi una figura che non era la sua, vincendo la sua essenza di persona sostanzialmente pacifica, si è fatto tecnico della lotta armata. E’ facile poi continuare ad immaginare che a questa scelta fosse sospinto anche dalla compiacenza dei più (come capita spesso in questi casi) dal loro sostegno dalla loro ammirazione (a qualcuno, magari, faceva perfino comodo che una persona così docile fosse disposta pressocché a tutto). E a lui andava bene aver trovato finalmente una personalità da mettersi addosso come uno dei suoi giacconi. Poi in galera, persa la personalità ha perso anche le mutande. E mi sembra di vederlo oggi, come un uomo profondamente finito, costretto a portarsi il fardello di un accusatore interiore che non smetterà mai di rimproverargli di aver commesso forse il più orribile dei suoi delitti e una terribile viltà.
    Inebetito dalla sua stessa esistenza non saprà più che farsene e questa per lui sarà la più insopportabile pena.
    Sarà perché non sto in galera, ma nonostante tutto non riesco a volergliene.
  18. E citando questi fenomeni non possiamo dimenticare gli “angioletti” di A.O. o del M.S. la cui principale attività, dopo la caccia ai fascisti, è stata quella di menarsi tra di loro e poi insieme di pestare con le loro famose chiavi inglesi i compagni dell'autonomia.
  19. Qualsiasi considerazione non può evidentemente eliminare l'aspetto rivoltante che riveste questo mercanteggio (mi dissocio se mi fai uscire, ti faccio uscire, se ti dissoci) codificato nell'atto giudiziario. Ma questo non toglie che dietro gli interessi specifici, i risultati immediati, c'è una motivazione una giustificazione che ha le sue radici nelle stesse scelte politiche precedenti e in un processo psicologico almeno simile a quello tratteggiato.
  20. Fuori dal carcere esiste lo psicanalista, ma in galera non ci sono molte alternative.
  21. "Come alla società degli ordini è seguita una società senza ordini ma con classi, bisogna dire che alla società delle classi succederà una società. senza classi, ma animata da un nuovo antagonismo ancora da definirsi. Un movimento al quale si rifiuta un inizio non può avere fine. “Se il socialismo”, dice un saggista libertario, “è un eterno divenire, i suoi mezzi sono il suo stesso fine”. Esattamente non ha fine, ma soltanto dei mezzi che da nulla vengono garantiti, ove non lo siano da “un valore trascendente il divenire" pg. 245