Il Covile

NL - N.o 448 (30.4.2008) Nikos Salingaros e Danilo Grifoni - La riscoperta della scuola italiana di urbanistica

Questo numero


Non ha bisogno di presentazione il testo di Nikos Salingaros che trovate sotto. Il successivo, che in qualche modo lo illustra, lo abbiamo grazie alle cure dell’amico Pietro Pagliardini che un mese fa ce ne aveva parlato:
“Spero quanto prima di inserire nel blog una splendida relazione di un architetto di Arezzo, Danilo Grifoni, scritta per un convegno dell’Ordine sul tema della qualità, che è una vera e propria Lectio Magistralis sulla cultura della città. Egli è riuscito, in quattro paginette, a condensare la storia della formazione della città e una visione di questa per il presente e per il futuro.
La dimostrazione indiretta di ciò sta nel fatto che venne contestato dalla stragrande maggioranza degli architetti presenti al convegno (non durante il convegno stesso, naturalmente, perché per farlo occorre saper confutare e per confutare bisogna sapere anche cosa proporre di alternativo, a parte i “gesti” che distruggono la città). […]
Danilo Grifoni, è un muratoriano della prima ora che ha anche il pregio di farsi comprendere da tutti, per carattere e per la sua esperienza politica e professionale che l’ha portato a confrontarsi con la gente.”

La riscoperta della scuola italiana di urbanistica (di Nikos Salingaros)


Durante il recente dibattito sull’architettura e l’urbanistica italiana contemporanea, la prima domanda che si ponevano gli amici italiani era: “Dove sono andati a finire tutti gli architetti italiani che sapevano costruire un tessuto urbano adatto ai bisogni umani? Eppure l’Italia ha avuto una lunga tradizione nella progettazione — di molti secoli! — che sembra essere scomparsa come per magia nel dopoguerra!”
Per fortuna un amico ci ha spedito un saggio molto interessante, dell’architetto Nicola Marzot, intitolato The Study of Urban Form in Italy. Qui ho trovato finalmente un’esposizione chiara della tradizione italiana nell’arte di costruire le città. Nomi importanti come Giovannoni, Pagano, Muratori, Caniggia, Maretto, Giannini ed altri maestri della progettazione. È vero che ho sentito parlare di Caniggia nella letteratura anglofona, ma è ancora difficile reperire i testi di questi pensatori.
Leggere l’articolo dell’architetto Marzot è stata una piacevole sorpresa, mi è sembrato di avere davanti un saggio dei miei colleghi neo-urbanisti contemporanei. Tutte le idee che trattano del tessuto urbano compatto, connesso, alla scala umana... Allora esisteva una scuola viva di urbanistica italiana con i nostri concetti, con la differenza di essere parecchie decadi in anticipo! Dov’è andata, e perché è scomparsa?
La conclusione è ben triste. Benché un gruppo importante di architetti e urbanisti avesse accumulato un corpo di teorie e delle pratiche sostanziali per costruire, e ricostruire, le città, posso farmi un’idea del processo che ha portato alla quasi scomparsa di queste idee, e alla marginalizzazione dei personaggi nominati.
Nell’Italia del dopoguerra soltanto coloro che seguivano il dogma modernista sono stati promossi dall’establishment italiano, diventato un’appendice di quello internazionale. Dunque, malgrado siano ancora numerosi i nomi italiani che compaiono nella letteratura urbanistica, e ai quali sono affidati i grandi progetti urbanistici, questi nomi sono il risultato di una selezione programmata. L’urbanistica alla scala umana è stata dimenticata, i suoi esponenti dimenticati. Quelli che non sostenevano la Carta d’Atene del 1933 sono stati espulsi della festa!
Vedo anche il riposizionamento dell’urbanistica, da scienza ed arte di costruire città per il popolo, verso un’attività meramente accademica, con l’unico scopo di sostenere le idee sbagliate delle ideologie moderniste. Quindi oggi gran parte dell’urbanistica italiana è guasta nei suoi presupposti: cercare di far assimilare il modernismo dall’urbanistica — un progetto a priori inutile e inconciliabile, secondo a me. Niente sforzi per costruire, soltanto la promozione degli stilemi del dogma. E la progettazione e costruzione degli ambienti di vita sociale è stata lasciata alle tipologie inumane dei modernisti, adottate dai governi di ogni colore con la benedizione dell’accademia. Con conseguenze disastrose ogni volta. Ancora secondo la mia interpretazione personale, l’urbanistica italiana, una volta distaccata dell’urbanistica umana reale, si è mescolata con la politica, molto spesso della sinistra, per diventare una miscela fangosa. Ecco come la trovo oggi, un’assurda miscela di parole, inutile per qualsiasi progettazione.
Conclusione: l’Italia possedeva una tradizione urbanistica di prim’ordine. Tradizione dimenticata a proposito. È finalmente arrivato il tempo di riscoprire questi grandi maestri dell’urbanistica ed applicare i loro metodi per ricostruire le città italiane — tanto tessuto urbano è stato distrutto negli ultimi anni applicando le teorie mostruose degli pseudo-urbanisti stranieri ed i loro seguaci alla moda in Italia.
È meglio stare attenti ai seguaci degli “archistar” di oggi. Le follie moderniste del dopoguerra hanno emuli che applicano teorie e pratiche apparentemente inoffensive ma in realtà figlie dell’esclusione dell’urbanistica umana dalla cultura italiana. Oggi è necessaria una ristrutturazione profonda di tutta la disciplina ed un ripensamento culturale anche da parte di chi ha praticato quella struttura dell’esclusione in modo tale che tutto ciò non avvenga più. Il paese, per la sua grande tradizione, se lo merita.
 
Nikos A. Salingaros

Qualità, identità, cultura dei “luoghi” (di Danilo Grifoni)


L’uomo, nelle diverse fasi storiche e nei diversi luoghi da lui occupati, ha sempre cercato di utilizzare al meglio le risorse territoriali piegandosi ed adattandosi alle caratteristiche, alle specificità, alle unicità dei luoghi stessi.
L’organizzazione o, più propriamente, la strutturazione del territorio, cosi come la formazione degli insediamenti ha dovuto confrontarsi con gli assetti morfologici e più in particolare con il sistema orografico e con il sistema idrografico, in sostanza con quella che può definirsi la vena, il verso del territorio e sono proprio il verso, la vena del territorio che hanno dettato le regole che stanno alla base dei comportamenti che l’uomo ha assunto rispetto all’insieme degli interventi effettuati durante le fasi di occupazione ed utilizzazione de! territorio.
Se la vena, il verso del territorio segnati dai corsi d’acqua, dai sistemi collinari, dalle pendenze, ha di fatto stabilito quella che sarà la sua orditura, in sostanza l’orditura e la forma dei campi, il reticolo dei fossi, il reticolo viario minore, la disposizione delle alberature, la direzione dei solchi, l’orientamento dei casolari sparsi (più legati al fondo che non ai percorsi fondamentali), ecco che rispetto alla scelta del sito, del luogo degli insediamenti ha influito quasi esclusivamente il sistema dei percorsi, quelli preesistenti, utilizzati dall’uomo per i continui spostamenti durante il periodo in cui si procacciava cibo raccogliendo bacche e cacciando.
L’uomo era nomade, ma non meravigli e non ci meravigli il fatto che il nomadismo tipico di molte specie animali, sia ancora oggi nel terzo millennio patrimonio di molte popolazioni che, dedite alla pastorizia, si spostano alla continua ricerca d’acqua e di nuovi pascoli (Tuareg, Beduini, Aborigeni dell’Australia, Samoiedi ecc).
Ma ritorniamo al tema: una volta apprese le tecniche della coltivazione, con la nascita dell’agricoltura l’uomo diviene stanziale.
È questa nuova condizione che determina la necessità di provvedere alla formazione di insediamenti ed ancor prima alla scelta del sito.
Con le pianure ancora impaludate o ridotte alla condizione di deserto, quindi non utilizzabili ai fini produttivi; con le valli poco sicure per la loro difficile difendibilità, i primi nuclei vengono collocati lungo i percorsi di crinale secondari, alla quota delle sorgive, cosa che garantisce l’approvvigionamento idrico.
I centri si uniscono attraverso le vie di mezza costa che sostituendo i crinali quali percorsi territoriali fondamentali, favoriscono rapporti tra le diverse comunità, scambi e più in generale una soddisfacente mobilità territoriale.
Per necessità legate a problemi di difesa, i nuclei vengono fondati di norma sulla testa del promontorio con la sella a monte e vanno a disporsi privilegiando o la direzione del crinale o quella della mezza costa.
Insediamenti quali Bibbiena, Poppi, Monte San Savino, Lucignano, Castiglion Fiorentino e molti altri, adagiati a cavallo del crinale privilegiano questa direttrice quasi a stabilire il loro rapporto particolare con le attività silvo-pastorali e quindi con tutto il mondo della montagna.
In queste realtà i rapporti, gli scambi sono ancora prevalentemente interni e favoriscono un rafforzamento dei comportamenti dell’area culturale che risulta poco interessata da contaminazioni esterne.
A mano a mano che vengono meno le necessità di difesa, che i territori di pianura vengono utilizzati e sottratti all’impaludamento, che vengono bonificati (l’uomo ha già appreso la tecnica della regimazione delle acque) si sviluppa contemporaneamente un vasto sistema di relazioni commerciali e culturali.
Si assiste ad un progressivo slittamento a valle degli insediamenti che nel loro procedere verso i percorsi territoriali di lungo fiume o pedecolllinari, seguono sempre il crinale che garantisce rapporti tra le diverse aree (montagna, collina, pianura) tra di loro diverse per il diverso assetto morfologico e quindi per il diverso tipo di strutturazione determinatosi nelle diverse fasi di occupazione del territorio.
Se in questa fase i crinali tengono insieme parti dello stesso territorio, le mezzecoste ed i percorsi di valle relazionano tra di loro parti omogenee e centri creando un sistema insediativo ancora efficiente.
L’importanza dei percorsi di fondovalle, pedecollinari, quali veri percorsi territoriali fondamentali, favorisce la formazione di nuovi centri che vanno a collocarsi là dove si incontrano i crinali con i percorsi di lungo fiume o di fondovalle.
Questo è il caso di Soci, Subbiano, Capolona che occupano, come di norma, aree poste vicino al guado(ponte) che favorisce il rapporto tra due aree culturali e quindi facilita gli scambi. Nasce il luogo del mercato.
Torniamo alla struttura del territorio: ormai occupata stabilmente la pianura, viene trasferito in collina tutto il bagaglio di esperienza consolidato nella pratica colturale.
La collina è rimodellata attraverso la formazione di terrazzamenti che, se pur di dimensioni contenute e limitate, riproducono le condizioni delle aree di pianura favorendo in prevalenza la coltura dell’olivo che diviene elemento costitutivo e distintivo di gran parte del paesaggio agrario toscano.
Ecco che tutto questo insieme di comportamenti, che ha favorito il formarsi di un territorio agricolo fortemente antropizzato, il costituirsi di un sistema insediativo caratterizzato da tanti centri di promontorio, di mezzacosta di lungo fiume e tenuto insieme da un efficiente reticolo viario territoriale; ecco tutto questo è la cultura dei luoghi, tutto questo è la nostra storia, la nostra identità.
Abbiamo rapidamente fatto insieme alcune riflessioni sulla strutturazione territoriale e sui processi di formazione degli insediamenti; ora vediamo come si strutturano i centri.
I centri urbani si dispongono lungo i percorsi principali che favoriscono il massimo dei rapporti possibili con gli altri insediamenti e con il territorio.
Le direzioni della crescita sono l’indicatore delle relazioni che si sono instaurate nel tempo con le aree contermini e con i centri più forti.
Se quindi così il percorso territoriale diviene elemento fondativo dell’insediamento di fatto esso si connota anche per il suo essere elemento ordinatore nel senso che regola tutto il sistema insediativo che viene strutturato attraverso un reticolo viario coordinato con il percorso territoriale stesso.
Alcuni centri dove in pratica una sola strada svolge un ruolo significativo, l’insediamento si snoda a borgo quando invece il nucleo nasce dove due o più percorsi vanno a confluire, là si forma la piazza come slargo e con forme irregolari.
Sul borgo vanno a collocarsi gli edifici specialistici, l’insediamento si struttura per isolati che contengono edilizia di base costituita da edifici singoli a schiera o a corte gli uni addossati agli altri a creare cortine edilizie poste sul bordo della strada.
II nuovo reticolo viario, la piazza, il disegno della città spesso lasciano leggere gli antichi segni dei precedenti tracciati, dell’orditura del territorio e ad essi si adattano strutturandosi per isolati irregolari.
Nei periodi in cui la volontà pianificatoria è forte (si pensi all’epoca romana, all’ottocento, al periodo fascista) la città si struttura secondo regole stabilite, sancite una volta per tutte, che danno ordine e regolarità che d’altra parte ritroviamo anche nel territorio.
Si pensi agli atti di pianificazione dell’epoca romana che vedono il territorio agricolo suddiviso in centurie di forma quadrata di 710 m, suddivise a loro volta in cento parti da destinare a coloni o centurioni.
Si pensi alla città costituita e strutturata attraverso un reticolo viario gerarchizzato che individua insulae (isolati) di 35,5 m x 17,75 m.
A questa cultura, quella di Roma, quella del potere centrale, che in ogni caso ha inciso come nessun altra sulla struttura dei territori del mondo allora conosciuto, a questo atteggiamento ha reagito il mondo della spontaneità, non del libero arbitrio, della spontaneità intesa quale sintesi delle esperienze vissute o tramandate da tanti cittadini che di fatto hanno rappresentato e rappresentano il pensiero condiviso di un area culturale.
Il medioevo è l’esempio più chiaro e più alto di quel continuo confronto tra regola, regolarità, geometria, ordine e spontaneità che è riuscito a tramandare fino a noi quel paesaggio agrario, quello armonioso della nostra toscana che è riuscito a regalarci quei capolavori che sono i nostri centri storici ove l’insieme degli interventi effettuati nei diversi periodi ci danno la possibilità di fruire di un bene unico irriproducibile perché risultato di accadimenti, di avvenimenti irripetibili ma soprattutto irripetibili nella stessa sequenza.
È sempre lo stesso comportamento che ci fa oggi godere di un territorio ordinato ed armonioso, omogeneo ma mai uguale a se stesso, un territorio ove sono ancora leggibili i segni lasciati da secoli di continuo ed incalzante lavoro, segni che se pur sovrapposti si fanno leggere in trasparenza.
Ecco questa è la cultura dei luoghi.
Ecco questa è la cultura.
Un territorio che fa leggere il confronto e lo scontro, ma che in particolare esalta in modo esemplare la continuità dei comportamenti si da farci dire che un centro storico, frutto di tanti gesti individuali, spesso tra di loro lontani nel tempo, di fatto ci appare quale edificio unico, quale monumento unico quindi quale unico grande gesto di una intera comunità Se ad ogni modo i centri storici, il sistema insediativo, il territorio agricolo, il sistema insediativo diffuso, sono la manifestazione della cultura dei luoghi, sono il grande libro della storia di un popolo, storia e cultura sono anche il patrimonio edilizio che caratterizza ed evidenzia connotati di specificità, unicità relazionate ai luoghi.
È qui infatti da dire subito che è nel modellare le prime case che l’uomo utilizza le esperienze fino a lui arrivate ed ovviamente usa i materiali “che trova”, quelli più facilmente reperibili e di conseguenza stabilisce forme tecniche che vi si adeguino.
Tecniche quindi che si adeguino ai materiali ed ai modelli culturali.
Nell’Italia centrale il modello di riferimento è la caverna, primo sicuro e confortevole rifugio ed il materiale più facilmente reperibile è la pietra.
La nostra è la cultura plastico muraria, la cultura della pietra che prevede muri perimetrali con funzione strutturale, con un forte prevalere dei pieni sui vuoti si da ricordare in qualche modo il modello primitivo: la grotta.
La nostra cultura risulta completamente diversa da quella “elastico lignea” dell’Europa che, ad imitazione dei primi rifugi costituiti da capanne in legname, è caratterizzata da elementi strutturali puntiformi.
I pilastri sono la trasposizione del tronco degli alberi, le coperture ripetono la forma, la disposizione e le stesse diverse dimensioni dei rami.
Si pensi al gotico, quanto lontano dalla nostra cultura, con le sue ampie vetrate, le sue cuspidi, le sue pilastrate e le sue coperture a falde significativamente inclinate.
La cellula elementare dell’edifico realizzata con muri portanti cresce spontaneamente in orizzontale ed in verticale sulla base delle sempre nuove esigenze delle diverse famiglie.
Nei centri urbani l’edilizia di base è caratterizzata dal tipo edilizio a schiera o a corte, dove si svolgono le diverse attività commerciali e produttive al piano terra direttamente relazionate con l’abitazione ai piani sovrastanti.
Si sviluppa sul bordo strada con la pertinenza orto, giardino sul retro. Le diverse attività convivono all’interno dello stesso edificio e questo rapporto permane fino all’avvento della rivoluzione industriale quando la città allenta i rapporti, si spappola, nasce lo zoning.
Nelle zone agricole la casa rurale, una sorta di edificio aperto, quasi un’incompiuta, si adatta alla morfologia dei luoghi, si articola attraverso volumi semplici variamente disposti con al piano terra il ricovero degli animali ed al piano primo la zona destinata all’abitare.
La casa con gli annessi staccati, la pertinenza cortiliva (l’aia) si presenta come una variante della casa corte, che pur collocata all’interno dell’azienda, ritaglia uno spazio per le attività all’aperto, spazio verso il quale è disposta la facciata principale.
I tipi edilizi, la disposizione lungo il percorso nei centri, la scelta del sito per le case rurali che in prevalenza privilegiano il versante esposto a sud-est, i materiali quali la pietra per le murature, il legname per le coperture ed i solai, l’architrave in legno o pietra che lavorano per dimensione e non per forma, le bucature di dimensioni contenute, la pendenza dei tetti: sono la cultura.
Si pensi per un momento alle aree dove difficile era il reperimento della pietra e dove si era sviluppata la produzione e quindi l’uso del mattone.
Ecco in queste aree (Siena ) si è sviluppato in modo quasi esclusivo l’uso dell’arco alla cui forma facilmente si adatta il mattone senza che in ogni caso questo abbia comportato l’allineamento alla cultura europea.
Piace qui segnalare il grande valore della cultura ereditata, che nella nostra toscana si è dimostrata resistente alle influenze esterne, capace di piegare gli stili imperanti nei vari periodi, capace di accettare contaminazioni ma senza accogliere e tanto meno subire in modo acritico le mode del tempo.
Vorrei far presente che con il gotico imperante le nostre cattedrali adattavano le pendenze delle coperture a quelle delle tradizione, sostituivano gli archi acuti con quelli a tutto sesto, arricchivano sì i paramenti murari ma limitavano significativamente le parti vetrate operando così più in continuità che in dissonanza.
Si pensi che il barocco, la massima espressione dell’architettura, non ebbe nella terra toscana diritto di cittadinanza.
Se quindi è vero, come è vero, che esiste una cultura dei luoghi, se è vero, come è vero, che i valori che ci sono stati trasferiti quale grande lascito del passato sono ancora riconosciuti tali, credo che noi tutti dobbiamo stabilire strategie capaci di mantenere e valorizzare le nostre matrici storiche e culturali.
A fronte del rischio di una omogeneizzazione acritica ai modelli culturali, sociali ed economici che vengono quotidianamente proposti da una non ben definita cultura internazionale, una sorta di esperanto senza radici, il nostro obiettivo è quello di individuare le diversità insite nel territorio, ricercare le nostre origini, divenire in sostanza proprietari della cultura dei luoghi per poterci confrontare con pari dignità con le culture altrui.
Occorre capire le regole non scritte, i comportamenti confermati e consolidati che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita degli insediamenti, capire le diverse forme di strutturazione del territorio che hanno interessato le diverse aree culturali nelle diverse fasi “di occupazione del territorio, capire il valore del tessuto e delle forme edilizie tradizionali che si sono dimostrati in grado di accogliere nel tempo mutamenti sociali ed economici e di incorporare un accumulo di saggezza costruita che rischia di andare irrimediabilmente perduta quando viene rimpiazzata da altri assetti tipologici.
Ecco tutto questo significa capire in sostanza che l’unica scelta possibile rispetto al grande rischio della omologazione che farebbe, della nostra provincia, della toscana tutta una terra qualsiasi che non sarebbe certamente apprezzata dai turisti ma che soprattutto resterebbe per noi estranea, ecco l’unica scelta possibile è quella di recuperare la cultura dei luoghi per recuperare la nostra identità.
In questo senso sembra che l’unica qualità stia nella continuità che significa ripensare ad una città e ad un territorio dove pezzi di città e pezzi di territorio siano tra loro rapportati quali elementi collaboranti di un unico organismo.
Una città e un territorio permeabili dove le strade finiscano su altre strade, dove venga recuperata l’antica dialettica tra emergenza e tessuto, tra edilizia specialistica ed edilizia di base, dove i percorsi siano tra di loro gerarchizzati, dove le strade non siano demonizzate, ma al contrario viste come elementi ordinatori e fondativi dello sviluppo, dove vi sia continuità di tessuto costruito, commistione di funzione al suo interno, coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale.
Una cultura che riconosca al territorio, alla città un suo verso una sua orditura rispetto ai quali produrre interventi coordinati e non mai controvena, una cultura che vada ad individuare e valorizzare le polarità urbane e territoriali per far corrispondere a queste attività specialistiche, oggi collocate e disperse in modo casuale sul territorio.
Una cultura che strutturi la città per isolati visti quali cellule elementari di un intero aggregato, capaci di dare ordine al costruito, di rendere la città fruibile, di garantire rapporti fra le diverse parti, di gerarchizzare i percorsi e quindi i diversi pezzi della città.
Da quanto detto, credo che si evidenzi la necessità di un fare urbanistica che, esaltando le specificità culturali, i comportamenti consolidati, le regole non scritte che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita, riconosca il ruolo che hanno svolto e possono ancora svolgere, le diverse parti della città e del territorio, da una parte rimetta insieme vecchio e nuovo eliminando conflittualità dissonanze e situazioni di separatezza e dall’altra si fondi sulla valorizzazione delle tradizioni e delle culture dei luoghi.
Cultura e tradizioni che sono manifestate e si manifestano anche attraverso l’uso dei materiali, l’uso di tecniche costruttive, l’uso di tipi edilizi di modi di rapportare gli edifici al territorio e ai percorsi, di aggregarli tra loro.
Infine un fare urbanistica che sia su misura rispetto ad una realtà ricca di storia, di cultura, di tradizioni che sulla città e sul territorio ha lasciato segni che non possono essere cancellati, ma al contrario tutelati e valorizzati, convinti tra l’altro che, troppo spesso, abbiamo dimenticato che il nostro territorio, con i suoi viali alberati, con i suoi canali, con le sue case sparse, con le sue ville, con i suoi aggregati rurali così come la città con i suoi muri, con le sue vie, le sue piazze, i suoi monumenti è ancora oggi scuola dove si forma e si affina la società civile.
 
Danilo Grifoni