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La poesia di Luzi. Dall’insidia alla salvezza? (di Luigi Puddu)


1. Come introduzione

Il fine che mi propongo non è l’interpretazione definitiva del pensiero-poesia di Luzi, ma l’esame della questione generale “se e in qual modo si dia il cristianesimo” nella sua opera.

Alcuni indizi della questione possono essere tratti da due fonti bibliografiche principali: l’articolo di G. Mazzanti Il paradiso tra insidia e sorriso (in Vivens Homo 1995) e il volume Mario Luzi cantore della luce (Assisi 2003), che contiene scritti, oltre che di Luzi, di Cavallini, Frattini, Giachery, Marchi, Quiriconi, Tuscano, Verdino.

Chi mi legge deve considerare quanto segue più come istanza pressante che come conclusione cogente. In nessun modo deve essere pensato come l’unico modo mio personale di leggere Luzi o qualunque altro poeta: come la bellezza della poesia non può far velo alle domande radicali sul nostro destino, così quel che dico non deve esserlo nei confronti di un’opera poetica quanto mai insigne.

E della quale comunque ipotizzo, spero non velleitarie, vie di salvezza.

Supplico indulgenza per il frequente trascorrere tra le diverse “intenzioni”: dell’autore, del testo, del lettore. Ciò mi ha spinto alla citazione finale.

Infine il titolo: nato originariamente come Una luminosa insidia. La poesia di Luzi, per interno impulso ha assunto la forma qui data, quasi adorniana testimonianza di uno sguardo “dal punto di vista della possibile redenzione”. Dove il “possibile” richiama, invoca il divino, trinitario “Porsi”, es-posto crucialmente nel Figlio.

2. Indizi per un’ipotesi di …

L’articolo di Mazzanti, dopo una complessa disamina di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (cui si deve necessariamente rimandare per i dettagli), conclude che:
“[...] Luzi stesso preferisce – o non può diversamente? – la ‘riduzione’ del paradiso dantesco. Non a caso egli titola l’ultima sessione del suo Viaggio «Ispezione celeste». Tale titolo pare escludere una intimità stabilita col mondo celeste. È ciò indizio di ritrosia, di una sorta di pudore? Di una innata timidezza? O di un senso di impotenza? Di impossibilità a varcare una soglia definitiva e determinante? [...] Comunque stiano le cose pare che colui che compie l’ispezione , si muova con un senso di estraneità a ciò che sta esplorando [...] Il tutto lascia credere che Luzi si accontenti – o deve accontentarsi – di appena un’ispezione in terra-paradiso [...] Qual è la ragione ultima di tale ‘scacco’? o almeno di tale impasse? [...] Ciò [...] significa [...] che le categorie cristiane non sono più avvertite da Luzi come adeguate per esprimere la propria ultima esperienza. Egli approda infatti all’esperienza del nulla, avvertito come il fondo oceano di tutto e di tutti. Questo è il suo paradiso, che cela comunque, anche se luminosa, un’insidia [...]”.
Questo nulla risulterebbe, a detta di Mazzanti, sostanzialmente vicino, non certo al misticismo cristiano, ma alla sensibilità e alla visione del neo-platonismo, dell’alchimia e della saggezza religiosa indiana e buddista. Nulla di questi rilievi si ritrova invece nei saggi, pur accuratissimi, di Mario Luzi cantore della luce: qui l’opera luziana è, forse a-criticamente, descritta come “pellegrinaggio di ritorno all’essere, verso il riacquisto per l’uomo della sua esiliata umanità e al divino delle sue forme immanenti” (Marchi).

Di fronte a tale acquietarsi del discernimento, si deve per contro andare in cerca di altri indizi, nella precedente e successiva produzione poetica. A sostegno di quale ipotesi?

Dall’inizio alla fine dell’opera di Luzi, ci troviamo immersi in quel notorio, e sempre riconfermato, progetto iniziale di “discorso naturale” che assume via via il volto di “fisica perfetta”, di “matematica celeste”, in cui colludono “fisicità e trascendenza, esperienza estetica ed esperienza mistica” e che infine culmina in una “metafisica disincarnata dell’assoluto” (Marchi).

Ma la qualificazione che assume, nella nuda materialità dei testi, sembra far esplodere o implodere la pacificante sintesi tra disincarnazione e umanità intravista da Marchi. Nell’immagine soggiacente di: “vita ed essere come movimento e mutamento” (Frattini), la consistenza personale dell’umano pare subire una sorta di derubricazione nel fenomeno “vita” e il modo sembra offendere (ricordiamo la moratoria sul termine, invocata da Illich anni fa?).

Dove situare, se non come indizi a conferma, questi passi, presi tra tanti?
«Vita fedele alla vita
tutto questo che le è cresciuto in seno
dove va, mi chiedo,
discende o sale a sbalzi verso il suo principio
[...]
sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita e basta»
(Su Fondamenti Invisibili)
«Mondo, non sono circoscritto in me,
hai voluto che fossimo ciascuno
un progetto di vita
nel progetto universale.
So bene che dobbiamo mutuamente
tu ed io crescere insieme
era scritto nella pietra
del suo estremo miglio
e ben dentro di sé.
Amen.»
(Sotto Specie Umana)
«Sogno quello
non lo era
[...]
piuttosto un lenticolare andirivieni
di larve e di parvenze,
di morti, vivi, possibili
esistenze future e trapassate
in danze e contraddanze
[...]
un’improvvisa trasparenza
del creato a se stesso
e alla sua storia
che tramutava ed era.»
(Sotto Specie Umana)
Oppure:
«S’accorge il tempo
della sua furtività, tradisce
un soprassalto l’uomo.
Tempo, l’uomo,
che s’allarma
dentro il tempo fermo
insediato nella sua durata,
immobile nel suo trascorrimento»
(Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)
O anche:
«Mare. Mare sempre presente
[...]
e lui esservi dentro
e lui esserne parte
a fondo
sempre più a fondo
[...]
e subito salire
ancora
al celestiale incontro
all’etere,
al fuoco
a un invisibile
ricongiungimento
[...]
Mare, mare eterno.»
(Frasi e Incisi di un Canto Salutare).
Se allora, come dice Frattini: “moto, mutamento, tempo, durata: motivi di fondo che continuano a fruttificare nel pensiero poetante di Luzi, immedesimando nella fisica dell’immaginario la metafisica del mistero”, qual è questa immedesimazione, laddove – lo ammette Marchi commentando il primo Luzi – la circolarità naturalistica incatena ed è ammessa per salvarci solo una “fuga verticale”?

E così, quando Luzi stesso conferma che: «ciò che unicamente ci rassicura è la vita in sé, lo spandersi continuo della vita sul pianeta dell’universo», diventa difficile poter uscire dall’equivoco di una metafisica che si vuole imperfetta, contrapposta ad una naturalistica perfezione.

Interessante e sintomatico nell’indeterminazione tra cristianesimo e panteismo, il medesimo Frattini, quando attesta: “in filigrana ci rivela come al tempo del qui risponda il tempo dell’Oltre [...] una sapienza che non esclude la fede nella sua dimensione non propriamente teologica ma naturale e familiare [...] religiosità, cristiana seppur non confessionale”.

Un rapporto con l’assoluto (proprio nel suo non essere, non voler essere “confessionale”) che non sembra capace di andare oltre i termini fissati dall’immanentismo gnostico di Montale:
«Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che traudii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d’uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall’ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato»,
per quanto tutto di Luzi sembri opporsi ad ogni montalismo?

L’evocata immagine del mare, un mare che simboleggia l’essere, riporta invece ad un rapporto riconosciuto ed esplicitato: il singolare dantismo di Luzi.

Opportuno però registrare scarti e differenze, di seguito alle note di Mazzanti. Qui lo psicanalista Giacomo B. Contri e la sua Scuola (1) possono darci nuova ispirazione.

In Dante, la metafora del “mare dell’essere”, dice Contri, “banalizza e omologa bene e bonaccia; depersonalizza uomo e Dio, nel mare indistinto dell’essere” e la contemplazione visiva elimina ogni relazione reale.

Ma il rivelare psicoanalitico non può anch’esso velare ulteriormente? E questo non è un velo che va, non direi strappato, ma almeno individuato? La psicoanalisi stessa non presuppone un non-verbale, proprio nella scelta dell’espropriazione-estirpazione da esso? Come un metodologico o epistemologico “iconoclasmo previo” o “primato della parola”, laicamente in vista della massima evidenza dell’incarnazione, della “parola fatta carne”, che consente di “vedere la sua gloria” e di “gustare e vedere quanto è buono”?

In effetti Dante rimane ancora “medievale”. Come per tutti i medievali, la natura spirituale della persona tende a - ed attinge (per grazia) - l’ordine soprannaturale e in questo tendere e attingere coinvolge l’intelletto, la volontà, la memoria (e quindi l’integralità dell’essere personale, fondato sull’actus essendi). L’ordinazione al soprannaturale è in qualche modo gratuitamente inscritta nell’essere personale e il dono dell’essere non è sostituzione o assorbimento, ma relazione reale tra le persone del Dio unitrino e la persona umana.

Se questo è vero, l’immaginario, nel contesto del “naturale desiderium Dei videndi”, può essere legittimamente compreso e ricapitolato nell’ambito della “visione”.

Ecco, la critica di Contri a Dante non allora è del tutto pertinente, perché non presta attenzione al singolare passaggio di registro: i medievali impiegano la metafora visiva per dire la persona intera e trasfigurano realmente in visione, quella che è una relazione spirituale-carnale, che non si limita all’uomo ma attinge Dio altrettanto realmente (per grazia).

È un presupposto che spiega non solo la letteratura ma anche la liturgia. Non è quello di Dante il periodo in cui la visione dell’Ostia e del Calice, elevati durante il rito sacrificale dell’Eucaristia, diventano (senza alcuna intenzione profanante, ma nel contesto di un corale Domine non sum dignus!) quasi un equivalente del mangiare e bere il Corpo e il Sangue di Cristo?

Cosa succede una volta desertificata la cattedrale medievale? Come i riformatori liturgici del XX secolo non colsero l’animus medievale e lo ricodificarono come un devozionalismo vano e fuorviante, così sembra facile per Contri concludere (mancando il bersaglio) che con Dante e in Dante inizino le nevrosi-psicosi dell’uomo d’oggi.

Ma ciò che non vale per Dante, non può meglio valere invece per il “dantismo asintotico” di Luzi e in un’epoca che “rimuove” e occulta come non esistente, ciò che allora non era detto (e quindi veniva presupposto) in quanto di per sé evidente? In un’epoca in cui la cosmolatria new-age impera?

E ciò nel contesto di una posizione personale di Luzi che sta, come prima detto, in “una religiosità, cristiana seppur non confessionale” e non può che confermare l’intenzionale (mai piena) convergenza dell’uno verso l’altro poeta, congiunta alla realizzata, sottile divergenza negli esiti? In quel lirismo cosmico facilmente traducibile in monismo mistico, in cui riaffiorano le mai negate suggestioni teilhardiane e neoplatoniche (precoci e confermate - reiterate fin nelle ultime opere)?

Si vedano a riprova i singoli passi della “poetica della luce” luziana (impossibile citare di più, coinciderebbero con l’opera omnia), dove la luce è “annientamento”:

«Perché, luce, ti ritrai
da me nelle cose guardate
e più addentro ancora
nelle altre non vedute?
Chiusa la storia, cancellata la persona,
perso o vinto l’agone?
Oppure
è l’altro che matura
e splende, l’amore pieno,
il pieno annientamento
in cosa? In che unica sostanza,
in che totale in essenza-
impossibile saperlo,
non c’è testimone, non c’è canto?
[...] »
(Per il battesimo dei nostri frammenti)
oppure si accompagna ad una sorta di dubbio metodico sulla consistenza dell’umano di fronte allo splendore cosmico:

«La purità dell’essere - ne aveva
e non ne aveva
lui barlumi
di prereminiscenza
[...]
o no, forse era
desiderio, imago.
A un tratto s’incendiò
in fondo ai suoi pensieri
quel mare di materia
luce aria, gli entrò nel labirinto
e in ogni cavità
del cranio quella musica,
quello splendore -
era però o pareva
aleatorio l’uomo
precaria la sua storia
in quella temperia.
Oh non sia come piaga
né come cancrena
l’umano in questa numinosa sfera,
non sia stata l’Incarnazione spreco
pregò dal suo rigore
già di salma alle porte di che regno,
accolto, Porfirio, nell'amalgama?
Bruciato nell’unità? Spero.»
(Sotto specie umana)
… e vi si confronti la dantesca “teologia della luce” di Paradiso XIV, connessa inscindibilmente con la “risurrezione della carne”…

3. Luzi vs. Betocchi

Per poter spiegare questo dantismo asintotico (caso particolare del suo cristianesimo asintotico) e questa deriva immanentistico-monistica, che non sappiamo quanto preterintenzionalmente metta insieme Teilhard e Montale, bisogna andare all’unico maestro poetico, Betocchi e alla speciale lettura che Luzi compie della sua singolare, unica e altamente tragica esperienza finale, quella del suo volontario (?) esilio dalle formulazioni dogmaticamente più ortodosse.

Esplorato questo rapporto, sono allora ipotizzabili per la poesia di Luzi una via di salvezza epistemologica e una personalistico-anagogica.

È cruciale il rapporto interpretativo, da cui deriva la poetica. La differenza fondamentale che Luzi - e molti lettori di Betocchi con lui - non colgono è quella tra: Così che, se le parole di Luzi in qualche caso sembrano (e in lui comunque vogliono essere) ispirate dalle stesse negazioni (?) dell’ultimo Betocchi delle Poesie del Sabato, diverso ne è il contesto e divaricante l’esito.

Infatti in Betocchi tutto si spiega e ricapitola in:
«quel gesto fanciullo [… che …] resta a mezz’aria» (Poesie del Sabato).
Sembra una preghiera vana, è invece una preghiera che offre in preghiera la sua stessa (presunta) vanità. Giunge da un lungo rapportarsi improvvisamente infranto, in cui l’infrazione – attraverso un processo (o un itinerario iniziatico?) in cui prima il delitto (subìto) si fa castigo dell’Altro, e poi castigo di sé nel Sé (“non sono più tuo figlio”) – è segno di una ferita dell’essere che è essa stessa invocazione.

Ci aspetteremmo qui - sono elementi della parabola evangelica - il dolore del rimorso, la consapevolezza del peccato, l’urgenza di essere perdonato e al tempo stesso giudicato dal più alto dei tribunali, l’unico che solo potrà portare alla redenzione. Ma l’ultimo Betocchi, nel procedere al ritorno verso il Padre, qui non si sofferma e, da figliol prodigo unico e singolare, sceglie invece (o è scelto dalla prova donata - dono amaro ma sempre dono dell’Altissimo - di cui si diceva?) di patire la propria unica e singolare pena -riabilitazione: “[non sono nulla], trattami come l’ultimo dei tuoi servi”.

La carità del poeta diventa l’umiltà che sembra dispogliarsi di ogni privilegio rispetto ad ogni altra creatura, ma la potenza di questo dispogliarsi invece effigia l’ironica riconciliazione di un drammatico rapporto filiale (dove l’accento deve andare non sul dramma o sull’ironia, ma sull’essere figlio e riconciliato: direbbe Contri, che “i posti della relazione non si scambiano”).

Questa nuova relazione riconciliata - per quanto all’apparenza le verdi espressioni teologali si presentino come rinsecchite - è sancita proprio da questo culmine sacrificale e i titoli stessi ripresentano ed enfatizzano questo nuovo rapporto: proprio a partire da quel Sabato, che misteriosamente (meglio, quasi mistericamente o mistagogicamente) unisce il Venerdì e la Domenica.

Indizi che quella carità del poeta, quell’umiltà che sembra dispogliarsi di ogni privilegio, può invece legittimarsi in forza di questo cristico dispogliarsi e sovranamente comunicare, far partecipe e donare una sorta di privilegio dell’essere personale (null’altro vuol dire qui vita, a differenza della flessione teilhardiana e/o naturalistica, che incombe sul termine in Luzi) ad ogni altra creatura, in un cosmico risarcimento (anticipo della redenzione pasquale).

In lui sempre si sta dunque in quell’in-stare definitivo della crux che è ara mundi (e nell’altare che è plenitudo crucis): ecco l’allegria da cui la poesia di Betocchi è nata, e fino all’ultimo è rinata, nome poetico della relazione personale con Cristo, meglio in Cristo.

Per tutto ciò, è cortocircuitante e illegittima la lettura che, degli esiti del vecchio maestro, Luzi fa in Per il battesimo dei nostri frammenti.

Luzi purtroppo non ha colto (poteva?) quella singolare relazione di Betocchi, ma solo quel tanto di presupposto, di perdurante suggestione “ideologica” da cristianesimo progressista (in cui già tutto è “bell’e fatto”, risolto e interpretato - e non più falsificabile - dentro una “teologia della resa”): se fosse vera, l’ultimo Betocchi non servirebbe di per sé, ma solo a conferma dell’allucinazione di quella pseudo-chiesa, che si arroga il diritto a “spogliarsi di tutto, anche di Dio”, nella pretesa di “restituirlo all’umanità e alla storia”: questa sì - non le umili certezze teologali che nutrono i gesti fanciulli – vera e propria “[a-]teologale ultrasuperbia” (autocensura “politicamente corretta” del rapporto personale con Cristo).

Come per Dante, l’adesione di Luzi a Betocchi rimane allo stesso modo asintotica.

Dante e Betocchi rappresentano l’Oltre di Luzi.

Certo il tempo di Dante – per usare un’espressione da un recente articolo di Marina Corradi – “viveva Cristo come unico senso e orizzonte, origine e meta, alfa ed omega. Senza verità relative e tempo amministrato”. Noi non siamo più dentro la follia loro e dobbiamo farci carico della nostra stoltezza, che non vuol riconoscere quell’Alfa – Omega.

E non vi è chi dall’esterno non noti la necessariamente fragile vulnerabilità di questo “rifare Dio in noi” dell’ultimo Betocchi, la cui “sostenibilità” o “ continuabilità” può stare più nella traccia di una relazione ritrovata (morta-risorta), che nell’esplicita ammissibilità delle formulazioni; e molto a tal proposito vi sarebbe da dire sull’omissione di soccorso, culturalmente e teologalmente parlando, di quella cristianità progressista che lesse allora - e legge tuttora - questa singolare vicenda più come replica degli assunti ultimi di Bonhoeffer, che come ironico-tragica ma comunque reale incorporazione a Cristo stesso.

Il Luzi più convincente starebbe allora nel suo confronto/incontro con questi maestri, più che negli esiti suoi propri? C’è forse un Luzi, nascosto tra le pieghe di sé, che osa spingersi – nella linea di Dante e di Betocchi - aldilà di sé e del proprio pensiero-poesia?

È il Luzi di Via Crucis, in cui:
“il mistero dell’incarnazione (che implica identità e diversità di “sguardo” anche tra Padre e Figlio) si propone in termini singolarmente affiatati a una poetica. Il riconosciuto magistero dell’umile Betocchi, magari dell’arduo, dubitante e oltranzisticamente spoliato Carlo Betocchi poeta da vecchio, faticosamente in cerca dell’ « anima di tutti: / uomini e sassi, ed animali e piante»
(A mani giunte IV, in Breviario della necessità),

trova proprio qui, a questo impegnativo e abbassato discrimine della “carità del vissuto”, la sua incidenza più implicante”, così dice Marchi in “Su due recenti libri di Luzi. (‘Sotto Specie Umana’. ‘Frammenti di Novecento’)”(2) .

Se ne legga il testo-chiave dato dal critico:
«Perché Padre, talora mi domando,
l’incarnazione è tra gli uomini,
perché non in altra specie
tra quelle delle tue creature visibili
e che pure ti testimoniano: gli uccelli
i pesci, le gazzelle, i daini [...]
Ma questa perduta specie volevi riconciliarti,
mi hai affiliato all’uomo, perché, figlio dell’uomo,
trafitto dagli uomini, sanguinassi
e questo fosse il prezzo del perdono e del
ricominciamento»
È il Luzi dell’esplicitazione cristologica a denunciare l’insufficienza del Luzi della mistica cosmologica?

Qui basti rilevare che – se l’indizio del fraintendimento dell’ultimo Betocchi e della asintotica lontananza da Dante servono ad illuminare la produzione poetica di Luzi a partire da Per il battesimo dei nostri frammenti - la soluzione non va ricercata nella poesia luziana (nel suo porsi come legge a se stessa), ma nel conflitto che in questa si genera in rapporto con quell’Oltre, di cui sono testimoni Dante e Betocchi: è il proprio della preghiera ad essere esposizione cruciale, segno di contraddizione.

In Dante l’esperienza paradisiaca è attinta realmente, non per fictio né per ispezione da lontano.

In Betocchi la prova finale in se stessa si pone – pur con lo stigma di frustrazione e colpa, colpa e frustrazione per la tragedia personale (o, con termini luziani, rimorso – purificazione?) - solo come prova e non come definitiva risposta, essendo – come detto in precedenza – la Risposta, l’Esito altrove o meglio un Altro, Colui che non dice parole, ma in primo luogo crucialmente si espone, prendendo il dolore su di Sé.

La poesia di Luzi non vuole/non può essere preghiera, perché (o finché?) assume come definitivo orizzonte (e in questo fraintende), quello che invece in Betocchi e in Dante - inestricabilmente christifideles come persone e come poeti – è assunto, superato, inverato, anche se mai tolto e sempre crucialmente esposto.

Più in là, al punto 5., trarremo le conclusioni possibili.

4. Ipotesi per una rilettura: una via di salvezza epistemologica

Il pensiero-poesia luziano, nella sua visione generale e nelle singole enunciazioni, sembra dunque esposto a (o non adeguatamente protetto da) una flessione monistico-naturalistica e/o immanentistica. Ai già ricordati presupposti di tipo neoplatonico e/o buddistico va aggiunta, a conferma, la notazione di quanto la lettura di Teilhard sia condizionante, proprio in quelle ambivalenti collusioni “tra fisicità e trascendenza, esperienza estetica ed esperienza mistica” già individuate dalla critica e disseminate nei testi di Luzi.

Una (precaria) via di salvezza epistemologica, consisterebbe in tal caso nel riproporre per l’uno, quanto scrive G. Barzaghi per l’altro. (3)

Nel lirismo cosmico di Luzi, in quanto “fisica perfetta”o “matematica celeste”, la preponderanza della terminologia naturalistica (è nota la crucialità del termine vita, peraltro declinato in modalità in cui non è dato cogliere se il senso sia univoco, equivoco o analogo) testimonierebbe solo di descrizione fenomenologica dal basso: ciò che è personale, trascendente, inattingibile alla pura fenomenicità apparirebbe nella forma e all’interno di un “discorso naturale”, il cui immanentismo-naturalismo sarebbe solo prospettico e non sostanziale.

In Luzi l’esperienza poetica tenderebbe cioè, sempre descrittivamente e non propriamente parlando, alla fusione fenomenologica di persona e cosa, di natura e soprannatura, di immanenza e trascendenza. Altro sarebbe ritenere Dio e il soprannaturale come costitutivi della natura, altro vedere dal punto di vista della natura le implicazioni della presenza di Dio nella natura.

Quella di Luzi potrebbe in prima analisi potrebbe sembrare un’esperienza-limite finalizzata verso un tutto cosmico o un nulla mistico: ma l’approccio fenomenologico chiarisce che a questo tutto e a questo nulla non possiamo così facilmente dare una maiuscola e farne un panteismo.

Cosa può autorizzare questa rilettura?

Certo non la filosofia esplicita emergente dal discorso naturale luziano.

Per il quale vale il realistico rilievo di Romano Guardini:
«Non è il ‘mondo’ a comprendere sé, a farsi trasparente a se stesso nel conoscere del singolo – ma è piuttosto il singolo che compare di fronte al mondo, lo contempla, lo comprende e lo giudica». (4)
Pertanto la “rilevazione dei segni [...] così partecipe e assorta” non può così semplicemente essere ricompresa come “prossemica risurrezionale”, rimanendo asintoticamente legata ad un “discorso naturale”, che conferma solo “l’unica verità essenziale di una vita che nasce e rinasce a se stessa, perennemente” (Marchi).

Non il luminoso Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi (che aderisce ed inerisce tutto all’evento-Cristo) o il Prefazio pasquale IV (“In Cristo, vincitore del peccato e della morte, l’universo risorge e si rinnova e l’uomo ritorna alle sorgenti della vita”) e neppure l’intima presenza creatrice e santificatrice di Dio nel creato, proclamata da filosofi e teologi dell’Ortodossia (quali Soloviev, Florenskji, Bulgakov) … piuttosto la greve Natura delle cose di Lucrezio.

Sembra perciò valido il dubbio se non si tratti invece, con le parole di Alfonso Belardinelli, di una descrizione “prima dell’incarnazione”, invece che “in un clima di resurrezione”.

La precarietà di questa via di salvezza epistemologica è indice allora di quella condizione dell’esilio che Luzi stesso considera “coessenziale dell’uomo”; in questa condizione non sembra possibile distinguere la persona dalla cosa, confessare che “essere è appartenerGli” (Kafka).

Ma è possibile affrancare Luzi da questo esilio terreno?

5. Ricapitolazione e conclusione: la via di salvezza “anagogica”

A testi di Guardini (tratti dall’Etica già citata) facciamo ancora riferimento, per questa ricapitolazione-conclusione.

Dice il filosofo-teologo:
«per poter guadagnare il piano del reale, l’uomo ha dovuto svincolarsi dall’immediato esserci-dentro, e prendere le distanze, nel distacco e nella lontananza dell’intenzionalità spirituale. Ma proprio con ciò egli si è avvicinato all’oggetto in una maniera tale, che nessun immediato esserci-dentro rende possibile».
Così l’incontro può darsi «soltanto a condizione di uno stare di fronte: a partire dalla lontananza – dentro la vicinanza» e dunque, nota Vinci, la realtà – in quanto dato offerto, donato - deve essere lasciata libera di essere ciò che è e l’uomo deve coglierla in un modo che è da definire non solo e non tanto «disinteressato», ma «che abbandona se stesso»; ancora con le parole dello stesso Guardini: «allontanandomi da me stesso [...] io sono rientrato in me stesso da un’altra parte, diventando più pienamente me stesso».

Che cos’è descritto in questi passi?

Un procedimento anagogico, meglio personalistico-anagogico (personalistico in quanto anagogico, anagogico in quanto personalistico). Un’anagogia che vogliamo prospettare come la via di salvezza per (a partire da) il pensiero-poesia di Luzi e che, in quanto tale, richiede un “salto”, una “cesura intima”, un guardiniano “prendere le distanze da sé”, esplicitabile come surplus, che porti a compimento – a modo di grazia – la natura del testo poetico.

Non già soltanto un estrinseco modello letterario, ma reale partecipazione dell’ Eschaton, che della biblica via anagogica conserva l’intenzionalità di innalzamento (il «quo tendas» medievale!), che si dà - quasi mistericamente - come “ri-accedere a” (“ri-accadere di”) quanto già dato in Cristo: dunque, non certo utopico non-luogo e non soltanto ermeneutica testuale …

Questo perché l’anagogia sta al mistero ed alla preghiera, come l’allegoria alla creazione poetica?

Sì, a patto che il raffronto sia assunto nella reale sproporzione dei livelli di realtà, manifesti cioè quella cesura e quel salto necessari, rispetto alla criteriologia dell’analisi letteraria. Non si tratta infatti di cercare o svelare nascosti simbolismi, ma di evidenziare una separazione già data: il “prendere le distanze da sé”, l’anagogico innalzarsi deve avere forma sostanziale del salire in croce (in quella Croce).

Non c’è Trasfigurazione, Risurrezione, Ascensione, Parusia (anche declinate al minuscolo), senza questo salire, se non nell’ in-stare della Croce. La smentita della gnostica, malsana idea dell’anagogia come utopia, sono proprio le prove, quei chiodi che avvincono la croce alla persona, come parte di quegli altri che l’hanno avvinta a quella Persona, facendone la Croce.

Si tratta di un’anagogia carnale-spirituale (cioè personale) e non solo verbale.

Non che tale percorso debba essere compiuto in proprio dall’uomo (o dal poeta) Luzi, che anzi spesso rilutta e chiede il proprio dissolversi («schiodami dalla mia identità», ancora si legge in Dottrina dell’estremo principiante – cui peraltro soccorre preterintenzionalmente un frammento di Raboni «non c’è chiodo / che scacci / questo chiodo»), ma deve ineludibilmente concluderlo il lettore, se vuole cogliere quei salti e quelle cesure che necessitano alla salvezza di quella stessa poesia.

Dante e Betocchi, ciascuno a suo modo, sono già anagogici, in quanto sono già nel dinamismo relazionale implicato nel definitivo instare di Cristo. Luzi attinge la via di salvezza quando, in linea con tali maestri, lascia la fisica perfetta, la matematica celeste, il misticismo naturalistico e, nell’innalzamento del Figlio, si innalza aldilà di se stesso, del proprio pensiero-poesia.

“Se e in qual modo si dia il cristianesimo nella poesia di Luzi”, ci siamo chiesti. Più che negli esiti acquisiti della sua poesia, questo si dà in alcuni indizi minoritari, suscettibili però di fecondare e ridefinire l’acquisito.

Si veda innanzi tutto questo passo:
«Non ero io nel niente,
però. Ero
più ancora nell’essente.
Mi pensai
salma spolpata
da piranha celesti,
osso pulito
dall’aridità dei venti -
di rimorso
di purificazione -
sotto quella luminaria,
quando,
quando, Dante,
la rivestita carne alleluiando?»
(Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini),
dove spicca la citazione del verso dantesco, nella lezione non più accolta nelle edizioni critiche.

Non si entra qui nel merito della filologia dantesca, ma è significativo che il poeta Luzi scelga consapevolmente (anagogicamente!) una simile pietra d’inciampo: non solo una voce che viene rivestita di un corpo nella lode perfetta, ma tutto l’essere personale che nella risurrezione della carne torna a levarsi come essere carnale-spirituale e, in quanto tale, diviene lode e giubilo. La forma è interrogativa, conflittuale, ma il punto di riferimento e la pietra di paragone, come in un giudizio finale, è Dante in quanto colui che attinge realmente l’esperienza del Paradiso.

È l’esperienza personale dell’artista, la cruciale esposizione che viene iconizzata e a cui è promesso l’innalzamento sacrificale-risurrezionale: qui si incontrano - e diventano simili - Simone Martini, Luzi e, molto più propriamente che in Per il battesimo dei nostri frammenti, l’ultimo Betocchi.

Luzi stesso sembra preludere a questa anagogia, quando – nel fare, da questo punto di vista, il miglior commento a se stesso - dice: “La preghiera comincia dove finisce la poesia, quando la parola non serve più e occorre un linguaggio altro” (La porta del cielo).

L’effetto di queste evidenziazioni ri-orienta (e contesta) il corpus poetico aldilà del troppo evidente e sovradeterminato lirismo cosmico.

Infatti siamo già nel rapporto radicale poesia-filosofia, come sostiene il filosofo Givone (Voce e silenzio in Luzi )(5), di cui citiamo alcuni spunti interessanti:
“Eppure qualcosa c’è che sembra risparmiato dal dubbio. Questo accade quando ‘il silenzio della parola’ rientra ‘nella chiara e terribile semplicità del suo esserci’. Bisogna che i detriti delle epoche storiche siano attraversati dalla parola che resiste allo svuotamento e alla devastazione [...] Che sia questa la risposta della poesia alla cosiddetta domanda fondamentale della metafisica, che chiede perché c’è qualcosa e non piuttosto il nulla? C’è perché c’è. Anzi, si dovrebbe dire che il fatto di esserci è di per sé miracoloso”,
ma questo “già” filosofico, che la parola poetica fa proprio, contiene – come prima evidenziato in Guardini – un impulso anagogico:
“Dono di una divinità generosa o di un demone beffardo ? [...] Più che la risposta a questa domanda, importa che il domandare tenga ancorato il suo oggetto, cioè l’esserci, all’irriducibile ambiguità dell’essere: ciò che lo fa apparire di volta in volta come prodigio o mistero, ‘portento’ o ‘enigma’. Che qualcosa sia, anzi, che sia tutto ciò che è, comporta una vera e propria estasi del pensiero, un suo schiudersi al suo stesso altro, la realtà, non deducibile, non spiegabile. «C’è questo, c’è prodigiosamente». «C’è tutto, tutto, / tutto incredibilmente». Non che la poesia abbia una sua via privilegiata all’essere. La parola poetica giace in una profondità dove regna il silenzio. Del quale deve perforare la dura compattezza, l’impenetrabilità. Per trovare, finalmente, il suo significato non più revocabile. Ma in questo suo movimento, prima di rientrare in se stessa la parola è sempre ‘al di qua’ o ‘al di là’ di sé [...] ”,
perciò il salto qualitativo - dall’essere in quanto principio cosmico-naturalistico all’Essere quale principio metafisico personale, ad un tempo assoluto e intimo alle cose, in cui le cose stesse sussistono ed in cui è presente per essentiam, per potentiam e per praesentiam – non può che vivere di cesure:
“l’essere di cui qui si parla non è l’essere aristotelico, l’essere già da sempre salvo e che perciò non ha bisogno di salvezza. Invece è l’essere introdotto nell’orizzonte del pensiero dall’apocalittica ebraico-cristiana. È l’essere esposto al suo possibile annientamento. L’essere che perciò ha bisogno di salvezza. Misteriosa salvezza. Incredibile salvezza – precisamente ciò che la poesia di Luzi si assume il compito di dire, forse al limite della disperazione o forse già nella luce («Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione »)”
e invocare l’incorporazione in quella cruciale esposizione del Figlio, che salva l’essere da ogni annientamento.

Ma qui le conseguenze sono radicali.

Se con Brotto (6) riconosciamo in Luzi infatti una liricità “volta al trascendente” e “un ritorno alle origini della poesia lirica”, che era “originariamente volta al sacro” e la cui “forma iniziale era la preghiera”, occorre tuttavia far presente che la ricapitolazione- conclusione non è nel proprio della poesia ma può aver luogo solo nel conflitto che il proprio della preghiera ingenera nella poesia stessa.

Per poter pregare, in e con Luzi bisogna proprio farla finita con la poesia. E la grazia della conversione consente lo slancio sacrificale, che unisce ablazione e oblazione.

Per questo le epigrafi inaugurali e le scansioni o conclusioni liturgiche di molte sue poesie devono suonare non come conferma del testo poetico o come “bilanciamento” e/o “integrazione” di esso (Marchi), ma come invito quanto meno al suo superamento/inveramento, che ora ne denuncia la radicale insufficienza, l’inedia estrema:

«In Sé
e in ogni dove maturò l’evento,
in cielo, in terra,
nell’imo più profondo
della sua profondità,
storia ed essenza
fabbricò la sua sostanza,
causò ipse se stesso
e il suo accadere
irreparabilmente
il non dicibile
mai detto avvenimento -
niente nel mondo ne rimase esente.
Oh noi tutti chiamati
all’essere in un lampo
per ogni tempo
prima che il tempo fosse
e gettati nei suoi evi;
a pascolarlo, bradi
e sparpagliati lungo i suoi dirupi
finche s’era ciascuno
alla sua ora
levato in piedi
per la prova
di vigore e conoscenza
che di era in era indura,
aveva fabbricato una particola
di sé la storia umana
che ancora ci tortura…
come? per la liberazione sia nel nulla
sia nel pieno compimento…
oh precor. »
(Sotto specie umana).
Quale In-seità si può invocare?

Quella in cui il Sé divino nell’eterna generazione del suo Verbo, non solo crea, ma predestina le creature a Sé e nell’innalzamento del Figlio acquisisce le moltitudini dei figli adottivi; non certo la panteistica “causa sui” senza relazione sussistente e dunque senza relazione tout court. Perché l’originaria adesione della parola poetica all’irrevocabilità (cfr. Givone) è in realtà pulsione (o competenza) ineludibilmente anagogica, partecipazione al surplus cultico-liturgico, all’irrevocabile performatività del rito: dunque relazione essa stessa.

È infine il Luzi di Via Crucis - già commentato in 3. - ad emergere, ma non solo, come qui si evidenzia:
«ed eccolo, nella più interna lenticola
di quel pensiero si fissa
ivi, si annida
lui profugo incessante della morte
solo senza profeti né apostoli,
solo nella sua immagine,
rientrata la parola, rientrato
il silenzio della parola
nella chiara e terribile
semplicità del suo esserci.
E mi guarda
palpitando nella sua indicibile
somiglianza.»
(Per il battesimo dei nostri frammenti).
Spiace allora che nell’esegesi di Frattini restino giustapposte mistica naturale e cristologia.

Se è giusto è il dire che
“alla dimensione ‘celeste’, nella sfera misteriosa dell’Oltre, pertiene [questo] passo [...] dove Cristo appare, tragica e misteriosa presenza, «nel suo perenne esilio dalla morte» grazie alla risurrezione, che rimanda all’indicibile somiglianza al Padre”
ed altrettanto lo è il commento di Renard (in Mario Luzi - Frammenti e totalità):
“Poema innanzitutto sognato, che si conclude in una visione mistica. Tutti gli elementi della disperazione storica sono presenti, eppure lui è al di là della parola, al di là del suo silenzio. Egli è ed è visibile”,
più letterale e meno anagogico è il concludere che
“In quello sguardo, in quel palpito che vibra d’arcano come un sogno, è forse il segreto della poesia di Luzi: riconoscere e illuminare le meraviglie della vita, nella caleidoscopica rete che ci lega al Tutto [sic!], in quella «religio» del sacro e dell’Oltre, dove si radica il senso più alto di ogni civiltà” (Frattini).
Così si compie il passaggio dai fondamenti invisibili alla visibilità del fondamento cristologico, alla definitiva via di salvezza:

« Sangue – sua profusione
in ogni dove
del mondo
capillarmente
in tutto l’universo,
sua stormente
ramificazione
[...]
suo spreco,
sua dissipazione antica
nelle stragi palesi e clandestine,
nelle croci – Una alzata a espiarne
lo sperpero, lo scempio
[...]
Dove corre il sangue, dove annega?
Come l’acqua, come i fiumi
ritorna alla sorgente
il sangue, scende e sale
dalla morte alla resurrezione
O sanguis meus»
(Sotto specie umana)
e qui è davvero appropriato Verdino:
“solo una fede cristica e sacrificale può legittimare la resurrezione, come esplicita la recente drammatica litania del sangue [...] che nel suo terribile diramarsi [...] trova tuttavia sintesi nel sangue sacrificale di Cristo”.
L’effetto dell’innalzamento anagogico, con la raggiunta ri-identificazione nell’esperienza di Dante e di Betocchi, sortisce l’effetto di una riguadagnata centralità della persona, conseguenza del raro ma fecondo esplicito rilievo cristologico: parafrasando Piero Coda, l’Evento della morte di croce del Figlio di Dio fatto carne e della sua risurrezione, sin dagli inizi e in permanenza è sfida radicale, lotta corpo a corpo tra il proprium della rivelazione cristiana e il pensiero poetico luziano.

Ma senza questa lotta e questo Evento, non c’è poesia che tenga.


Luigi Puddu

Citazione per un’appendice autocritica

“Non credo che la poesia sia, in se stessa, una forma di conoscenza ‘altra’ o più autorevole. La poesia, anzi, le buone poesie sono come quei tronchi cavi o quegli archi naturali di pietra che fanno suonare il vento, o le voci in modo insolito. E il vento e le voci sono la vita, le idee, le pene e le speranze di ognuno e di tutti. “Un grido unanime” diceva il vecchio grande Ungaretti, indicando come lui sapeva bene non una unanimità ideologica o stilistica, ma di “tensione”, di “grido”, appunto.

Sulla natura della poesia non si fanno grandi scoperte o acquisizioni. La poesia è una esperienza a cui si partecipa, ci si chiami Omero o Pinco Pallino che in una delle smisurate librerie di New York prende in mano un libro di poesie di E. Dickinson o di T. S. Eliot.

Il lettore completa l’opera, diceva Péguy richiamandone la grande responsabilità. Come dire che anche una poesia la si fa sempre in due: chi l’ha scritta, magari cinquemila anni fa, e chi la sta leggendo. Anche per questa speciale e infinita cooperazione, la poesia riguarda sempre il presente, e non accetta nessuna museificazione.

È un’esperienza del segreto del vivere: siamo dentro una creazione che ci fa.” (7)

D. Rondoni

Note

  1. cfr. www.dailylife.info/corso%202001-02/SC-020223-cGBC.htm
  2. in www.comunedipienza.it/L_Archivio/Secondo_Quaderno/Marchi/marchi.html
  3. L’escatologia evolutiva di P. Teilhard de Chardin, Sacra Doctrina n. 6/1996
  4. in Etica, cit. in Vinci, Vorrei aiutare gli altri a vedere con occhi nuovi, Teologica & Historica XIII/2004
  5. in www.italica.rai.it/principali/argomenti/libri/speciale_luzi/interventi/givone.htm
  6. Luzi poeta della trascendenza in www.bibliosofia.net/LECTURAE.html
  7. in www.daviderondoni.it/pagina3.htm